La terribile storia di una faida raccontata con crudo realismo ne “L’opera degli ulivi” dallo scrittore-medico Santo Gioffrè

Sta viaggiando in tutta Italia l’ultimo romanzo di Santo Gioffrè, “L’opera degli ulivi”. Dalla sua uscita (2018) sono state circa 90 le presentazioni effettuate in diverse località, toccando città come Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna. Mette insieme passioni politiche, sentimenti, ideali, emozioni, ma anche vicende che hanno scavato – e tuttora scavano – un solco che gronda sangue e profonda inquietudine nella storia umana della Calabria. Ad emergere in particolare un fenomeno, la cui spirale ha risucchiato diverse famiglie di questa regione. Si tratta della terribile mattanza, denominata faida, per richiamare l’odio che si scatena tra famiglie, per il loro predominio sul territorio, quando ad imperare è la bruta forza e il linguaggio della morte. Ma il romanzo di Gioffrè perlustra altre zone oscure della storia politica e criminale dell’intero Paese: gli intrecci perversi tra ambienti malavitosi e poteri eversivi dello Stato, i buchi neri che si porta dentro, come metastasi, il corpo della nostra Repubblica. “L’opera degli ulivi” è uno dei pochi romanzi che approfondisce  le dinamiche antropologiche e psicologiche che portano il protagonista, Enzo Capoferro, ad essere risucchiato nell’ambiente di feroce contrasto tra le famiglie di una località calabrese, dove entra in scena la vendetta che porta una lunga scia di delitti. In questo clima di violenza cieca ad avere un ruolo decisivo la madre del protagonista che riporta la storia indietro, a rivivere i retaggi arcaici in cui le istituzioni civili e i valori umani scompaiono: si manifesta solo una lotta spietata per il predominio, per la stessa sopravvivenza delle famiglie. Il romanzo rievoca una vicenda tragica accaduta realmente, uno spaccato storico emerso tra gli anni Settanta e Ottanta. Questa terribile storia intreccia Eros e Thanatos, amore e morte. Come un fiume carsico scorre il sentimento d’amore, la passione e la dolcezza che attraversa la vita del protagonista grazie all’incontro con una studentessa, Giulia, che Enzo cerca in tutti i modi di tenerla fuori da un destino ineluttabile: “Giulia capì che Enzo era a un bivio: o prendeva quella strada di violenza che lo conduceva al dolore, ai compromessi, alla morte, o poteva avviarsi verso la salvezza. E giulia rappresentava per Enzo l’alternativa” (pag. 55). E verso la fine, in un momento in cui Enzo ha chiaro ciò che si prospetta davanti, confessa a Giulia: “Tu sei ormai l’amore di questa mia vita non contaminata dai veleni portati da acque stagnanti che hanno come sorgente l’inferno e per foce il nulla. Tu sei la parte bella e pura, quella della mia Rivoluzione tradita” (pag. 106). Nella trama si intessono passioni politiche e scontri feroci, e la microstoria si innesta nella macrostoria. Teatro principale del romanzo l’Università di Messina. Nella città dello Stretto spira il vento della lotta politica tra posizioni estreme. Ad emergere è la trasformazione del protagonista che viene irretito in modo inesorabile dalle dinamiche familiari e criminali che lo portano, da leader militante di estrema sinistra ad abbracciare le logiche della faida, secondo le strutture insite alla ‘ndrangheta, che ha spinto diverse famiglie della Piana a sterminarsi. Infatti ne “L’opera degli ulivi” Santo Gioffrè ci fa entrare dentro un mondo oscuro: lo indaga in profondità e demistifica le terribili dinamiche che si generano fino a destrutturarle, facendo emergere il volto malefico e malvagio che si nasconde dietro il presunto potere che viene ostentato, e come certi simboli si portano dietro l’orrore, la negazione di qualsiasi forma di civiltà, di umanità. Prevale soltanto il linguaggio della morte. La narrazione mitica del fenomeno mafioso, a cui partecipano anche i media con enfasi, viene demistificata. Rispetto ai precedenti romanzi storici, da Artemisia Sanchez (da cui è stata tratta l’omonima fiction televisiva per la Rai), a Leonzio Pilato, a Terra rossa e al Gran Capitan Consalvo de Cordova, trasfigurati dalla distanza temporale e psicologica, lo stile presenta caratteri nuovi nei tratti espressivi di crudo realismo mimetico, in cui si riflette e si rispecchia l’esperienza biografica dello stesso autore, custode e testimone delle vicende narrate, come nella terribile invettiva della madre che istiga i figli alla vendetta, in dialetto, che ha i connotati della tragedia greca. Santo Gioffrè in diverse occasioni ha spiegato che questa storia era da diversi anni che aveva tentato di narrarla, ma senza esito, perché era coinvolto emotivamente. Poi un giorno si trova a passare davanti alla casa dello studente di Messina, teatro di molti eventi che sono riportati nel romanzo, abbandonata a se stessa, immersa nel degrado. Di fronte a questa immagine sono affiorati in modo epifanico quegli anni, quelle terribili vicende. In quel momento è scaturita la decisione di rievocare questa storia tragica con al centro l’Università di Messina, dove si sono concentrati forze di estrema destra, compresi i fascisti del regime dei colonnelli greci, in uno scontro violento con gli ambienti della sinistra extra-parlamentare che militavano in Autonomia operaia. “L’opera degli ulivi” è un romanzo di grande impatto emozionale. La scrittura asciutta, anche cruda in certi passaggi, tradisce invece una forte carica emotiva. Questo “struttura assente” è trapelata in particolare durante la presentazione del romanzo a Palmi, il 17 agosto, nell’ambito dei festeggiamenti della Varia, di fronte ad una piazza gremita di pubblico. Nel corso del dialogo con il giornalista e scrittore Arcangelo Badolati, Santo Gioffrè ha vissuto un momento catartico, partorito grazie alla intensa lettura dell’attore Giuseppe Zeno. Nel raccontare il motivo profondo che lo ha spinto a scrivere questa storia, lo scrittore ha confessato il legame di profonda amicizia con il protagonista del romanzo, generata dalla comune militanza politica. Nel rievocare la sorte di Enzo Capoferro, la sua voce si è rotta e Gioffrè non ha potuto trattenere la sua commozione. In questo clima di ricordi anche l’attore Zeno ha rammentato il suo legame con la Calabria e in particolare con Palmi, per l’importante e fondamentale esperienza vissuta all’Accademia dell’arte drammatica della Calabria, Scuola di Teatro di Palmi, che ha operato dagli anni ’80 e chiusa nel 2009, ricordando la presenza di importanti artisti e maestri del teatro di grande prestigio nazionale e internazionale; l’attore ha inoltre auspicato che possa ripetersi una simile possibilità per i tanti talenti che coltivano la passione per il teatro, ma che non hanno possibilità economiche, come è stato allora per lui. Diverse e molteplici le analisi di carattere sociologico, antropologico, psicologico, che sono state formulate da studiosi ed appassionati, ma anche da diversi magistrati. Alcuni passi ormai sono considerati da manuale, non solo interpretati sotto il profilo dell’esegesi tecnico-giuridica per spiegare le dinamiche che entrano in gioco, ma anche come documento rivelatore del contesto ambientale in cui si maturano determinati comportamenti che identificano una struttura antropologica e sociale, come hanno sottolineato con pertinenza e pregnanza due giudici che hanno operato in Calabria e conosciuto il fenomeno criminale da vicino, come il Procuratore della DDA di Reggio Calabria, Roberto Di Palma, e Giuseppe Creazzo (quest’ultimo attuale capo della Procura di Firenze, già Capo della Procura di Palmi), nelle diverse occasioni in cui il romanzo è stato presentato (Palmi, Firenze e Fiesole). Tra gli interventi più approfonditi, in cui emerge il contesto antropologico, sociale e storico, si riporta l’analisi effettuata dal prof. Saverio Di Bella (Università di Messina), uno dei più importanti storici e studiosi del fenomeno mafioso e criminale, approfondito anche nella veste di Senatore (seconda metà degli anni ’90), come componente della Commissione parlamentare antimafia. Il prof. Di Bella ha presentato il romanzo in diverse occasioni; inoltre, anche in altri contesti, ha fatto riferimento ad alcuni passi del romanzo per sottolineare l’importanza della scrittura di Gioffrè nel decodificare i linguaggi e i messaggi con cui vengono trasmessi certi modelli devastanti, per il carico di viiolenza e di morte che si portano all’interno del contesto familiare, ma anche ambientale.

Premessa

Nel 1998 Messina irruppe nella cronaca e nella storia d’Italia come città verminaio, città dei Pinocchi. Perché? Il 15 gennaio 1998 era stato ucciso con modalità mafiose il Prof. Matteo Bottari docente al Policlinico. Esplodeva il caso Messina. C’è la mafia nell’Ateneo? Quali affari e rapporti hanno utilizzato i mafiosi? Con quali alleanze, con quali silenzi e omertà di esponenti degli apparati statali? La città babba è nuda. Salta il Rettore dell’Ateneo, salta il Procuratore della Repubblica (dott. Zumbo). Finiranno processati e condannati i Magistrati Lembo e Mondello. Esplode uno scandalo di proporzioni colossali. Salta il sottosegretario Giorgianni, ex Magistrato, etc. Si scopre che nei mari dello Stretto viaggiano navi cariche di armi che fanno capo a esponenti di primo piano del mondo politico italiano. Si scopre ancora che le stragi di Capaci e di via d’Amelio hanno visto arrivare il TNT da Barcellona Pozzo di Gotto e che la provincia di Messina è un paradiso per i latitanti. La fotografia di quel momento di storia traumatica della città si trova nella Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia (relatore Del Turco).

***

Ma quali sono le radici dello scandalo? Quando, dove e come si è sviluppato l’albero dai frutti avvelenati? Come mai la città babba – cioè priva di mafia – è diventata la città che ha babbiato (ingannato) tutti costruendo un modello di mafia dotato di una capacità pervasiva e di una forza di seduzione tale da farla definire modello femminile di mafia?

***

Il romanzo di Santo Gioffré – di cui discutiamo in questa occasione – ci racconta la fase drammatica in cui i tanti semi della crisi della città dello Stretto si manifestano nelle fase nascente. Il racconto di Santo Gioffré inizia con il prologo pieno di tenerezza: è nato un amore carico di luce e di speranza. Trionfa il sogno. *** Poi irrompe lo spazio fisico che contiene la vicenda perché ne vede l’inizio e la fine: l’Ateneo, con la casa dello Studente all’inizio; l’Ateneo con la sua scalinata storica che dal Rettorato porta al giardino e alle Facoltà di Scienze Matematiche, fisiche, naturali, Giurisprudenza, Lettere e Filosofia, Economia e Commercio.

***

Grazie per l’occasione che ci viene offerta di discutere con voi presenti e con l’Autore, Santo Gioffrè, un romanzo affascinante e inquietante. Affascinante per la trama: personaggi, spazi, spaccati sociali e politici, geografia fisica. Inquietante, coinvolgente, drammatico per le domande ineludibili che pone al lettore. Lo spazio fisico include la Calabria e Messina, la città babba che ha sempre babbiato chi guarda e non vede e che ha travolto e divorato centinaia di presuntuosi o di illusi e riconsegnato alla violenza e alla morte chi non è riuscito a tagliare il cordone ombelicale con la cultura ancestrale di tipo mafioso di cui era figlio. E con la madre, vestale implacabile di quella cultura. Erinni familiari che non vede e non concepisce orizzonti che non siano intrisi di sangue e valori che siano alternativi alla vendetta.

***

Così Messina e il suo Ateneo sono il luogo di un destino che appare per un attimo aperto alla salvezza, attraverso Giulia. Un lampo, un’illusione. Enzo ha la netta percezione che se vuole davvero dimostrare a Giulia di amarla deve abbandonarla per evitare di trascinarla nel proprio cerchio di violenza e di morte nel quale resta prigioniero.

***

L’Ateneo rispecchiato e raccontato da Gioffré quello degli anni sessanta/settanta: fascisti, massoni, studenti greci affascinati dai colonnelli o militanti di sinistra e studenti italiani si incontrano e si scontrano strumentalizzati dai servizi greci, dai fascisti italiani, e – aggiungo – da affiliati a Gladio – celati nelle logge massoniche messinesi. La casa dello Studente diventa l’emblema di un maschilismo tetragono al cambiamento e all’emancipazione delle donne. Ma diventa anche un poligono di tiro per imparare ad usare mitra e pistole. I fascisti attaccano la Facoltà di Lettere guidati da un deputato regionale (Fede). Vengono feriti nell’assalto i segretari delle organizzazioni giovanili del PC e del PSI; viene colpito il Prof. Girolamo Cutroneo; vengono terrorizzate decine di studentesse che trovano rifugio – insieme al Preside della Facoltà Prof. Gianvito Resta – al terzo piano della Facoltà stessa. I fascisti sfondano la porta della biblioteca e tentano di incendiare i libri. Scatta la reazione di alcuni giovani professori e assistenti e degli studenti di sinistra: volano calci, pugni. E i fascisti vengono buttati furi dalla Facoltà. L’incendio dei libri viene spento.

***

Si gira armati. Si succedono le assemblee egemonizzate dalla destra e quelle egemonizzate dalla sinistra. Tafferugli e scontri diventano quasi quotidiani. Emergono a sinistra figure come il Vichingo, combattente rivoluzionario senza paura, calabrese. A destra Michelangelo La Torre, gigante di Tropea, utilizzato come catapulta umana, e Pasquale Mazzitelli, di Zungri, capace di darle e di prenderle senza timore.

***

In questo mare in tempesta arrivano anche gli studenti delle famiglie di ndrangheta. Ed è per loro un trauma. Da che parte stare? Molti di loro si portano dentro due radici antitetiche: la prima è quella di figli di una società contadina, che ha visto l’epopea del riscatto delle masse bracciantili attraverso la lotta contro il latifondo; la seconda è quella di studenti nati e cresciuti in famiglie di ndrangheta e quindi con i valori trasmessi loro da questa appartenenza I saperi professionali che verranno loro trasmessi nelle Facoltà nelle quali sono iscritti, come interagiranno con queste due anime? Diverranno professionisti al servizio della ‘ndrangheta e della mafia o diverranno soggetti che, liberando se stessi dalle catene della malavita, aiuteranno la società alla quale appartengono ad emanciparsi e a relegare nel passato le mafie? La risposta non sarà univoca. Si vive una tragedia individuale e collettiva terribile e devastante, qualunque sia la risposta data da ciascuno degli interessati.

Anche perché sul terreno emotivo dei sentimenti e dei valore le affinità negate tra ndrangheta e società civile sono evidenti. Una di queste affinità e che si esprime soltanto con la violenza e col sangue, anche nella società civile e tra gli Stati, è la vendetta.

***

Così a Messina si vocifera di un locale che opera a Giurisprudenza. Si vede ricoverato al Policlinico don Mommo Piromalli, tranquillamente visitato e omaggiato da chi ha l’onore di essere ammesso al suo cospetto. Riferimento al Policlinico per don Mommo è un Accademico della famiglia Cuzzocrea, famiglia che esprime anche imprenditori importanti nel settore farmaceutico e che sarà coinvolta nella farmatruffa. In realtà le radici della presenza della ndrangheta è di interessi ad essi collegati difesi con la violenza, risalgono a molto prima. Così come a molto prima risalgono le violenze contro alcuni docenti. Ricordiamo alcuni fatti: Le minacce, le intimidazioni, gli omicidi all’Università di Messina partono dal 1976, quando il Tribunale aveva vietato il soggiorno a Messina a cinque studenti universitari calabresi dopo una serie di episodi di violenze avvenute all’interno della Casa dello Studente. Otto anni dopo, il 6 dicembre 1984, Luciano Sansalone, studente di Locri, (all’epoca nominato “Grifo” dell’Ateneo, la principale carica della goliardia), venne centrato da un colpo di fucile quasi davanti al portone di casa. Un delitto mai chiarito, che secondo la commissione antimafia poteva essere considerato conseguenza di uno «sgarro fatto all’interno del sistema di appalti». (Cfr. “La Repubblica”, 07/07/2013).

***

Un altro personaggio chiave che ci aiuta a capire gli eventi tra ‘ndrangheta, ambienti accademici, realtà sociali bisognosi di tutela attraverso la classica rete delle raccomandazioni amicali, è Don Stilo. Questo sacerdote, la cui opera di promozione sociale – attraverso l’istruzione e il conseguimento del diploma di Maestro/Maestra elementare – è certamente meritoria, si trova ad operare in un territorio difficile intriso di ‘ndrangheta: Locri e la Locride. Vive così a cavallo di un mondo bisognoso di riscatto attraverso lo studio, ma che non riesce a trovare sempre attraverso il sapere le vie del sognato riscatto. E che comunque ha bisogno di essere accompagnato oltre il diploma negli studi universitari. Don Stilo diventa così cerniera tra la Facoltà di Magistero e in Maestri diplomati nel suo Istituto privato. E diventa, quasi automaticamente, anello di congiunzione sul filo dei favori tra gli studenti nell’area della Locride iscritti anche in altre Facoltà e alcuni Accademici docenti nelle Facoltà interessate alla carriera universitaria degli iscritti provenienti dalla Locride: Medicina e Chirurgia, Lettere e Filosofia, etc. Si deve prendere atto che esiste una zona grigia di cui partecipano Don Stilo, professori universitari, studenti locresi, ivi inclusi gli studenti provenienti da famiglie ‘ndranghetiste. Il legame, poi, di Don Stilo con il mondo politico si evince nelle campagne elettorali nelle quali il suddetto sacerdote convoglia i voti dei suoi assistiti, inclusi naturalmente i voti delle famiglie degli studenti ‘ndranghetisti da lui raccomandate.

***

Le grida, gli insulti, le maledizioni della Madre così ti riportano alle radici dell’Antico Testamento e della civiltà greca rispecchiata nelle tragedie e nei poemi omerici. Così essere soggetto e vittima di vendetta è un destino inappellabile. Tu devi uccidere con ferocia, vendicarti senza pietà, morire senza paura. Perché la misura del valore dell’uomo non è nell’uccidere è nel morire. Chi ti ammazza non deve leggere la paura nei tuoi occhi, come tu l’hai letta negli occhi di quelli da te assassinati. Tu vivrai, dopo la morte affrontata senza paura, perché le donne della tua famiglia trasmetteranno la memoria di te ai figli, ai nipoti, alle generazioni future che portano il tuo sangue e quello della tua famiglia nelle vene. Sarai un esempio e un modello da seguire. E i nemici temeranno al solo pensiero che il tuo sangue e il sangue di tuo padre e dei tuoi antenati circoli ancora nel cuore dei tuoi eredi e degli eredi della tua famiglia. Così è stato, così è, così sarà. Perché così vuole il destino.

***

Sarebbe fuorviante leggere il romanzo di Santo Gioffré come un romanzo che racconta la ‘ndrangheta. Non perché non si parli di ‘ndrangheta, ma perché la tragedia che viene raccontata va ben oltre e risale a molto prima, nei suoi risvolti esistenziali della nascita della ‘ndrangheta. Le parole terribili della madre (cfr. pag. 25) – che è anche capace di tenerezza nei confronti dei figli – sgorgano da radici primordiali, da problemi al cui interno la vendetta, lo spargimento di sangue sono funzionali e quasi necessari a tutelare e garantire il diritto alla vita. Un diritto che lo Stato non tutela. Chi vive nelle terre prive di Stato, e quindi soggette a leggi nelle quali l’uomo è ancora nelle condizioni di vivere come homo homini lupus, il diritto alla vita o riesci a tutelarlo da te – come famiglia – oppure sei annientato, sparisci dalla faccia della terra. Le frasi chiave e i momenti decisivi, secondo me, per capire la logica profonda e la tragedia di un popolo, sono le seguenti: a) «Lo Stato», rispose Enzo, «non è un guaritore in queste terre. È solo un assistente al capezzale del moribondo».

b) Ciò che realmente vide al cimitero, era segno di un ritualismo barbarico di vendetta in cui lo sfregio simboleggia la catarsi per l’anima, la testa e la vita di chi lo commette. Qualcuno aveva violato il sepolcro e dato alle fiamme ciò che rimaneva di un povero corpo dove i processi di decomposizione non si erano del tutto esauriti. Era l’offesa più vile al morto, e lo sfregio più crudele a chi ancora viveva nel ricordo del defunto. c) La vendetta, in quei posti, non ha nulla dell’irrazionale. Compiendola, ci si riappropria dell’equilibrio psico-fisico perso. È la restitutio ad integrum dopo aver subito un processo morboso devastante. Compierla, significa riabilitarsi alla vita. Altrimenti, pur continuando a vivere, il dopo non esiste più. La posta in gioco è il diritto all’esistenza. Un diritto minacciato da un nemico crudele che non esita ad uccidere e ad attaccare, addirittura, tombe e cadaveri incenerendo con l’uso del fuoco ciò che resta del corpo di un uomo già assassinato. Il messaggio è che di quella famiglia non deve restare traccia alcuna. Anche le ceneri saranno disperse dal vento. Dovrà sparire la memoria stessa, simbolicamente, della famiglia nemica. Una madre non può accettare che lei, portatrice di vita, veda distrutta la vita stessa. Allora spargere sangue, vendicarsi non è soltanto uccidere: l’uccisione del nemico è lo strumento indispensabile per riaffermare il proprio diritto all’esistenza e la capacità, oltreché la volontà, di difendere questo diritto pagando il prezzo di sangue che tale difesa comporta. Se per difenderlo bisogna sacrificare un figlio, un altro maschio della famiglia, spingendolo a diventare vendicatore ed assassino e poi, forse, a sua volta, un assassinato, non importa. In quella morte c’è il seme della speranza di vita e con quella morte si invia a tutti il messaggio della volontà tenace e indomabile di non cedere alla logica della morte. Nelle terre desolate, abbandonate dallo Stato a se stesse, non tutto è come appare: si uccide per contrastare la vittoria della morte sulla vita e non per celebrare i trionfi della morte.

***

Una notazione sullo stile: Gioffré ha una lingua nella quale ogni parola è una pietra, un lampo, o una carezza. Così la prosa ha la duttilità di uno spartito musicale e viaggia dallo spazio della tenerezza a quello della furia omicida. Anche le parole e le frasi in lingua calabrese assumono, in questo tessuto semantico, la durezza del diamante il filo tagliente di un coltello di acciaio ben affilato per spaccare il cuore e affettare l’anima.