Scalfaro il presidente dalle radici calabresi

Oscar Luigi Scalfaro (Novara, 9 settembre 1918 – Roma, 29 gennaio 2012) è stato un politico ed ex magistrato italiano, nono Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999.

Fu eletto deputato ininterrottamente dal 1946 al 1992, quando, durante la sua presidenza della Camera dei deputati, fu eletto Presidente della Repubblica. In precedenza era stato Ministro dell’Interno nel Governo Craxi I. Era senatore a vita aderente al Partito Democratico.

Scalfaro, insieme a Sandro Pertini (che presiedette come membro anziano il Senato nel 1987) ed Enrico De Nicola (presidente della Camera, del Senato e della Repubblica dal 1º gennaio all’11 maggio 1948), ha ricoperto tutte le tre più alte cariche dello Stato: è infatti stato Presidente della Repubblica e Presidente della Camera, oltre ad avere presieduto provvisoriamente il Senato all’inizio della XV Legislatura.

Gli Scalfaro, famiglia originaria della Calabria, acquisirono il titolo di baronale sul cognome (che – come ogni altro titolo nobiliare – ha cessato d’aver rilevanza giuridica con l’avvento della Repubblica). Esso fu concesso da Gioacchino Murat con patente del 7 settembre 1814 all’antenato catanzarese Raffaele Aloisio Scalfaro, comandante la Legione Provinciale di Calabria Ultra. Quest’ultimo avrebbe in seguito presieduto il consiglio di guerra che nel1815 condannò a morte lo stesso Murat.

Il padre, il barone Guglielmo, era nato a Napoli il 21 dicembre 1888 da madre napoletana, mentre la madre, Rosalia Ussino, era piemontese; ciò indusse Scalfaro a definirsi, nell’occasione di una visita di stato negli Stati Uniti, figlio dell’Unità d’Italia.

Ancora dodicenne Scalfaro si iscrisse alla Gioventù Italiana di Azione Cattolica, appartenenza che ha sempre ostentato (portò sempre all’occhiello della giacca il distintivo tondo dell’Azione Cattolica visibile anche quando, appena eletto alla massima carica pubblica italiana, fece intelevisione le brevi dichiarazioni di rito).

Si formò in ambienti cattolici e sin da giovanissimo partecipò all’attività dell’Azione Cattolica, in un periodo in cui questa organizzazione veniva avversata dal fascismo. In particolare fu attivo negli ambienti della Fuci, che in quegli anni raccolse i maggiori esponenti della futura classe dirigente cattolica. Durante la lotta partigiana, ebbe contatti con il mondo degli antifascisti.

Si laureò in Giurisprudenza nel 1941 all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ed entrò in magistratura nel 1943, prestando il giuramento di fedeltà al fascismo.

Il 26 dicembre 1943 sposò a Novara Maria Anna Inzitari (1924-1944), dalla quale ebbe una figlia, Mariannuzza Giannarosa (nata a Novara 27 novembre 1944).

Dopo il 25 aprile 1945 fece richiesta per entrare nelle Corti d’Assise straordinarie, istituite con giuristi volontari il 22 aprile (per una prevista durata di sei mesi) su richiesta degli angloamericani per porre un freno ai processi sommari del dopoguerra contro i fascisti, talora degenerati in veri e propri linciaggi. Queste corti vennero chiamate Tribunali speciali.

Dal primo maggio 1945 fu “consulente tecnico giuridico” del Tribunale d’emergenza di Novara, definito da Scalfaro stesso “un tribunale militare di partigiani”, successivamente, quando le Corti di Assise speciali di Novara si trovarono con una quantità insufficiente di magistrati, Scalfaro si trovò a rivestirvi anche il ruolo dipubblico ministero.

Nel luglio 1945 sostenne con altri due colleghi la pubblica accusa al processo che vedeva imputati per “collaborazione con il tedesco invasore” l’ex prefetto di Novara Enrico Vezzalini e i militi Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno e Raffaele Infante. Dopo tre giorni di dibattimento venne chiesta per i sei la condanna a morte, eseguita il 23 settembre successivo: i condannati non vennero uccisi alla prima maldestra raffica dell’inesperto plotone di esecuzione e sui corpi si accanì poi un gruppo di donne.

In veste di pubblico ministero presso queste corti, Scalfaro ottenne un’altra condanna capitale. La condanna tuttavia non fu eseguita a causa dell’accoglimento del ricorso in cassazione del condannatoStefano Zurlo. Ricorso suggerito, a quanto sostiene Scalfaro, dallo stesso Scalfaro.

Posta la fondatezza delle accuse, messa in dubbio dallo stesso Scalfaro decenni dopo, trattandosi di crimine sul quale stando al codice penale di guerra in vigore era prevista la pena capitale, la richiesta di condanna a morte era l’unica pena propugnabile da chi rappresentava l’accusa, a meno di un proprio rifiuto o dimissione dall’incarico.

Secondo altre fonti Scalfaro avrebbe richiesto altre condanne alla pena capitale. Successivamente egli stesso ha manifestato dubbi sulla fondatezza dei processi, influenzati dall’incandescente clima e dall’emozione popolare, affermando tra l’altro di “non aver elementi per rispondere” alla figlia di Domenico Ricci, che gli chiedeva di esprimersi sulla innocenza o colpevolezza del padre.

Come membro dell’Assemblea Costituente Scalfaro si impegnò successivamente affinché fosse eliminata la pena di morte dalle leggi della Repubblica Italiana.

Arrivò, prima dell’inizio della carriera politica, alla carica di segretario provinciale (Novara) dell’associazione. Alle elezioni per l’Assemblea Costituente si presentò candidato come indipendente nella lista della Dc, dopo che a livello nazionale era stato deciso l’appoggio aperto della gerarchia ecclesiastica e delle organizzazioni cattoliche al partito, in funzione di resistenza alla possibile conquista del potere da parte dei social-comunisti (Fronte popolare). Fu eletto con oltre quarantamila preferenze, un numero rilevante per i tempi e superiore al risultato ottenuto da personaggi politici del collegio come Giuseppe Pella e Giulio Pastore.

Lasciò la toga per la politica nel 1946: fu eletto a Torino, fra i più giovani nelle file della Democrazia Cristiana, all’Assemblea Costituente che doveva redigere una nuova Carta Costituzionale. In seguito dichiarò in un libro di non avere mai avuto vocazione per la politica e di essersi trovato alla Costituente senza avere alcuna attrattiva per “quel mestiere”.

Anticomunista ed antifascista, si iscrisse finalmente alla Dc e partecipò alla battaglia politica del 1948 senza abbandonare per questo l’Azione Cattolica che, presieduta da Luigi Gedda, appoggiava la Dc con Comitati Civici istituiti per l’occasione; ottenne oltre cinquantamila preferenze.

Secondo un resoconto annotato da Pietro Nenni nel suo diario, il 4 dicembre 1952, durante le tumultuose fasi parlamentari legate alla proposta di legge democristiana meglio nota come “legge truffa”, mentre già la polemica fra gli schieramenti era al calor bianco, Scalfaro propose che la Camera dei deputati “sedesse in permanenza, domenica compresa…”. Messa ai voti la proposta di Scalfaro, per usare le parole di Nenni “tutto finì con un pugilato come non si era mai visto. Volarono perfino le palline del banco delle commissioni. Ci furono parecchi contusi e un ferito grave, un usciere.

Considerato persona di rigide vedute in tema di morale fu protagonista il 20 luglio del 1950, all’inizio della sua attività parlamentare, di un episodio che fece molto scalpore, poi divenuto noto come “il caso del prendisole”.

Il fatto ebbe luogo nel ristorante romano “da Chiarina”, in via della Vite, quando insieme ai colleghi di partito Sampietro e Titomanlio Scalfaro ebbe un vivace alterco con una giovane signora, Edith Mingoni in Toussan, da lui pubblicamente ripresa in quanto il suo abbigliamento, a parere dell’onorevole, era sconveniente poiché ne mostrava le spalle nude.

Secondo una ricostruzione de Il Foglio, la signora si sarebbe tolta un bolerino a causa del caldo e Scalfaro avrebbe attraversato la sala per gridarle: “È uno schifo! Una cosa indegna e abominevole! Lei manca di rispetto al locale e alle persone presenti. Se è vestita a quel modo è una donna disonesta. Le ordino di rimettere il bolerino!”. Sempre secondo questa fonte, Scalfaro sarebbe uscito dal locale e vi sarebbe rientrato con due poliziotti. L’episodio terminò perciò in Questura, ove la donna, militante del Movimento Sociale Italiano, querelò Scalfaro ed il collega Sampietro per ingiurie.

La vicenda tenne banco sui giornali e riviste italiane per lungo tempo: la stampa laica accusava Scalfaro di “moralismo” e “bigottismo”, quella cattolica lo difendeva. Intervennero nella polemica molti personaggi noti, come il giornalista Renzo Trionfera, il latinista Concetto Marchesi, ed altri. Alla Camera furono presentate interrogazioni parlamentari nell’attesa di una delibera sull’autorizzazione a procedere (della cui competente Giunta Scalfaro stesso era membro) contro i due parlamentari a seguito della querela sporta dalla signora. Peraltro, poiché la Mingoni aveva dichiarato la sua militanza politica, nella richiesta di autorizzazione a procedere si afferma che dai parlamentari sarebbe stata chiamata “fascista” e minacciata di denuncia per apologia del fascismo. L’episodio fu raccontato dalla stampa anche in una versione secondo la quale Scalfaro avrebbe dato uno schiaffo alla signora.

Il padre della Mingoni in Toussan (un colonnello pluridecorato dell’aeronautica militare a riposo), ritenendo offensiva nei confronti della figlia una frase pronunciata da Scalfaro durante un dibattito parlamentare, lo sfidò a duello. Al padre subentrò poi come sfidante il marito della signora, anch’egli ufficiale dell’aeronautica. La sfida fu respinta, la qual cosa, risaputa pubblicamente, fece indignare il “principe Antonio Focas Flavio Comneno De Curtis”, in arte Totò, del quale il quotidiano socialista Avanti! pubblicò una vibrante lettera aperta a Scalfaro. Nella missiva, il comico napoletano rimproverava a Scalfaro un comportamento prima villano e poi codardo.

Il processo per la querela non fu mai celebrato per l’amnistia di tre anni dopo (Decreto del presidente della Repubblica 19 dicembre 1953, n. 922).

Politicamente Scalfaro fu sempre schierato all’ala destra della Democrazia Cristiana. Pur avendo sempre goduto di grande stima (ricambiata) da parte diAlcide De Gasperi, il suo punto di riferimento fu Mario Scelba, di cui era ammiratore e amico, e che durante il suo governo lo chiamò a ricoprire (fu il suo primo incarico di governo) il ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed al Turismo e spettacolo. Questo incarico gli procurò molte noie (e molta pubblicità). Nelle competenze del sottosegretario c’era anche quella censoria nei confronti dei film, la cui ammissione al circuito nazionale poteva essere negata se considerati contrari alla pubblica decenza od ammessa solo a condizione che alcune scene (poche o tante che fossero) venissero “tagliate”. In risposta al suo operato in tale campo vi fu un fiorire di attacchi ironici da parte della stampa laica che lo gratificò dei nomignoli più bizzarri e sarcastici. Contro di lui si spesero penne come Giovannino Guareschi e Curzio Malaparte.

Nel 1958 Mario Scelba formò nella Dc una “corrente” (Centrismo popolare) di politici conservatori che aveva come referenti principali, oltre a lui stesso, che ne era il leader, Guido Gonella, Roberto Lucifredi, Mario Martinelli ed Oscar Luigi Scalfaro, tutti componenti il Comitato di direzione. La corrente aveva ne “Il Centro” il suo organo di stampa, e verrà sciolta dal suo stesso leader otto anni dopo.

Coerente alla sua concezione anticomunista, all’inizio degli anni sessanta Scalfaro si oppose fermamente alla cosiddetta “apertura a sinistra” cioè all’ingresso del Partito Socialista Italiano nella compagine governativa (centrosinistra). In questa battaglia interna al partito ebbe come alleato Giulio Andreotti e la sua corrente. L’alleanza con il partito di Pietro Nenni, auspicata dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, fu poi realizzata da Amintore Fanfani e da Aldo Moro a partire dal 1963.

L’avvento del centrosinistra segnò il declino definitivo del suo referente Mario Scelba e nell’aprile del 1969 Scalfaro fondò, all’interno della DC, una sua corrente, “Forze libere”, ma la scarsa adesione al congresso del partito svoltosi a giugno di quell’anno (meno del 3% dei voti e quattro seggi) non fu incoraggiante: la corrente verrà sciolta ufficialmente quattro anni dopo.

Ricoprì l’incarico di Ministro dei Trasporti nel primo governo presieduto da Giulio Andreotti nel 1972 e quello di Ministro della Pubblica Istruzione nel secondo governo Andreotti lo stesso anno.

Nel 1972 polemizzò aspramente contro i socialisti, il cui neo segretario Francesco De Martino auspicava per il governo “equilibri più avanzati”, cioè l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo. Si batté altrettanto vigorosamente contro l’approvazione della legge Fortuna-Baslini, che introdusse il divorzio in Italia e fu un sostenitore del ricorso al referendum abrogativo della stessa legge, nel quale, tuttavia, vinsero i “No” (12 maggio 1974: in quell’occasione fu alleato di Amintore Fanfani che aveva promosso la consultazione elettorale abrogativa).

Come esponente dell’ala destra della Dc ricoprì comunque molte cariche di governo anche nei primi anni del centrosinistra ma nella seconda metà degli anni settanta la sua figura nel quadro politico generale rimase un po’ in ombra, ed in quel periodo ebbe come unica carica istituzionale la vicepresidenza della Camera dei deputati (da ottobre 1975), che mantenne per quasi otto anni.

Nel 1977 fu tra i firmatari, insieme a Mariotto Segni, Severino Citaristi, Giuseppe Zamberletti, Bartolo Ciccardini ed un altro centinaio di esponenti democristiani, di un documento con il quale si chiedeva al partito di abbandonare la linea politica portata avanti dal segretario Benigno Zaccagnini e di chiudere, contrariamente alla linea intrapresa (e che andava in direzione del cosiddetto “compromesso storico”), qualsiasi apertura nei confronti del Partito Comunista Italiano; i “Cento”, come furono chiamati dalla stampa, diedero vita alla corrente “Proposta”, che intendeva “garantire ai suoi aderenti di essere rappresentati negli organi del partito e del governo”.

Nell’agosto 1983 fu chiamato da Craxi a ricoprire una delle cariche più delicate e prestigiose del governo: la titolarità del ministero dell’Interno, carica che mantenne ininterrottamente fino al luglio del 1987.

Il suo periodo al Viminale fu segnato da eventi di una certa gravità, fra i quali la Strage del Rapido 904 (dicembre 1984), l’omicidio da parte delle Brigate Rosse dell’economista Ezio Tarantelli (marzo 1985) ed appunto la recrudescenza dell’attività della mafia che nel 1985 tentò l’omicidio del giudice Carlo Palermo ed uccise importanti esponenti delle forze dell’ordine in Sicilia.

Nel periodo di massima polemica durante Tangentopoli, in un fax da Hammamet Bettino Craxi gli imputò la proposta di emanazione della direttiva Pcm n. 4012/1 del 10 gennaio 1986, in materia di gestione delle spese, che nel corso delle indagini sullo scandalo Sisde si riteneva contenere “un aspetto discutibile e rischioso”.

Nel 1989 fu nominato presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla ricostruzione in Irpinia dopo il terremoto del novembre 1980: un incarico che impegnò Scalfaro per due anni.

Eletto Presidente della Camera dei deputati il 24 aprile del 1992, restò per poco tempo in questa carica. Francesco Cossiga si dimise da Presidente della Repubblica nello stesso mese e l’elezione del successore si trascinò in una serie di votazioni parlamentari senza risultato (Forlani e Vassalli non raggiunsero il quorum); la strage di Capaci dette uno scossone alla vita politica italiana e Scalfaro, sino ad allora considerato un outsider nella corsa al Quirinale, fu eletto alla massima carica istituzionale del Paese subito dopo il tragico evento. “Sponsor” politico di Scalfaro fu allora Marco Pannella, leader del Partito Radicale. Secondo Indro Montanelli, quando Giovanni Falcone venne ucciso insieme alla moglie ed alla scorta, già la scelta si andava restringendo verso le cosiddette “candidature istituzionali”, cioè Giovanni Spadolini, allora presidente del Senato, e Scalfaro presidente della Camera; anche Giulio Andreotti rivestiva un ruolo istituzionale in quel momento, come presidente del consiglio uscente (degli ultimi 3 anni della precedente legislatura), ma la sua candidatura sarebbe stata fermata da Craxi. Per Spadolini, sempre secondo questa interpretazione, sarebbe statoCiriaco De Mita, ma poi avrebbe prevalso fra i democristiani la convinzione che per quanto “anomalo” Scalfaro sarebbe pur stato un democristiano al Quirinale, mentre per Massimo D’Alema il Pds lo votò perché se non avesse votato Scalfaro poi sarebbe riaffiorata la candidatura di Andreotti.

Il 25 maggio 1992 Scalfaro fu eletto Capo dello Stato (al sedicesimo scrutinio) con 672 voti, espressi dai democristiani, dai socialisti, dai socialdemocratici, dai liberali, dal Pds, dai Verdi, dai Radicali e dalla Rete. La Lega Nord diede 75 voti al suo candidato Gianfranco Miglio, il Movimento Sociale 63 voti a Cossiga, mentre Rifondazione Comunista diede 50 voti allo scrittore Volponi.

Si è trattato di una delle presidenze più controverse della storia repubblicana: benché fortemente sostenuto dai partiti politici sopravvissuti al turbine di Tangentopoli, ha ingenerato forti contrapposizioni, fronteggiate con una decisione che nessuno avrebbe saputo prevedere da un politico approdato quasi per caso al Quirinale.

Cominciò con il nominare Giuliano Amato presidente del consiglio, avanzando riserve nei confronti dell’autocandidatura di Craxi, che non aveva ancora ricevuto nessun avviso di garanzia (ma il mandato di cattura nei confronti di Silvano Larini già faceva parlare di un avvicinamento degli inquirenti al leader socialista). Nelle memorie di Enzo Scotti, si apprese che il suo segretario generale Gaetano Gifuni avrebbe contattato sia Scotti sia Claudio Martelli per sondare la possibilità di una nomina nelle “seconde file” dei due principali partiti della coalizione di governo, allo scopo di propiziare un avvicendamento generazionale alla guida dei rispettivi partiti.

Accompagnò la riluttanza di Craxi a dimettersi dalla segreteria del Psi con le parole “chi ha salito le scale del potere deve saperle discendere con uguale dignità”. Il rifiuto di firmare il decreto-legge Conso sul finanziamento illecito dei partiti lo mise alla testa del moto popolare di ostilità verso il “Parlamento degli inquisiti”, e dopo il referendum che abrogò il sistema proporzionale fu tra quelli che spinse per una legge elettorale nuova, in cui il Parlamento operasse “sotto dettatura” dell’esito elettorale.

Nel 1993 scoppiò lo “scandalo Sisde”, relativo ad una gestione di fondi riservati che aveva tutta l’aria di essere stata gioiosamente disinvolta. Partita dalla bancarotta fraudolenta di un’agenzia di viaggi i cui titolari erano funzionari del servizio segreto del Viminale, un’inchiesta della magistratura fece emergere fondi “neri” per circa 14 miliardi depositati a favore di altri 5 funzionari; ci furono l’intervento del Consiglio Superiore della Magistratura per dissidi fra il magistrato che indagava e il suo procuratore capo, quello della commissione parlamentare d’inchiesta sui servizi segreti, presieduta da Ugo Pecchioli, e quello del ministro dell’Interno Nicola Mancino, e tutti si misero a indagare sull’operato del Servizio mentre a San Marino venivano individuati altri 35 miliardi di uguale sospetta provenienza. Nel frattempo la figlia di Scalfaro, Marianna, fu fotografata in compagnia dell’architetto Adolfo Salabé, sospettato di intrattenere affari per lui eccessivamente vantaggiosi con l’ente e che nel 1996 patteggiò la pena per le diverse imputazioni ricevute. I funzionari fornivano versioni di uso “regolare” dei fondi riservati, ma in ottobre uno degli indagati, Riccardo Malpica, ex direttore del servizio ed agli arresti da due giorni, affermò che Mancino e Scalfaro gli avrebbero imposto di mentire; aggiunse inoltre che il Sisde avrebbe versato ai ministri dell’interno 100 milioni di lire ogni mese.

La sera del 3 novembre 1993 Scalfaro si presentò in televisione, a reti unificate e interrompendo la partita di Coppa Uefa tra Cagliari e la squadra turca del Trabzonspor, con un messaggio straordinario alla nazione nel quale pronunciò l’espressione “Non ci sto”, parlò di “gioco al massacro” e diede una chiave di lettura dello scandalo come di una rappresaglia della classe politica travolta da Tangentopoli nei suoi confronti. Nei giorni successivi i funzionari furono indagati per il reato di attentato agli organi costituzionali, accusa dalla quale furono prosciolti nel 1996 per decorrenza dei termini (ma senza formula piena).

Nel 1994 i funzionari furono poi condannati, dimostrando la fondatezza della accuse di Scalfaro e nel 1999, concluso il settennato, Scalfaro fu denunciato da Filippo Mancuso per presunto abuso d’ufficio relativamente al suo periodo come Ministro dell’interno e sempre sull’ipotesi di illecita percezione dei detti 100 milioni al mese; circa l’effettiva percezione vi erano state diverse versioni di Malpica e la denuncia di Mancuso provocò numerose prese di posizione, come quella di Oliviero Diliberto, in quel momento Guardasigilli, il quale ricordò che la Procura di Roma aveva comunicato il 3 marzo 1994 che “nei confronti dell’onorevole Scalfaro non sussiste alcun elemento di fatto dal quale emerga un uso non istituzionale dei fondi”. Lo stesso Scalfaro, del resto, nel maggio 1994, durante una visita al santuario di Oropa, aveva ammesso la percezione di tali fondi: “Sfido chiunque a dimostrare che chi è stato ministro dell’Interno, e non solo io, ha dato una lira fuori dai fini istituzionali”. La sortita aveva provocato una richiesta trasversale di spiegazioni da parte di esponenti di Alleanza Nazionale, Forza Italia e Partito Democratico della Sinistra, ma il Quirinale, almeno nell’immediato, si tacque.

Dopo le elezioni del 1994, in seguito alla vittoria elettorale del Polo delle Libertà, al momento in cui Silvio Berlusconi stava predisponendo la lista dei ministri, Scalfaro ritenne sgraditi alcuni nomi, tra cui spiccava la nomina di Cesare Previti (che era indagato ma non ancora condannato) ancora al Ministero della Giustizia, spostato alla Difesa e sostituito da Alfredo Biondi nel ruolo di Guardasigilli. In un colloquio preliminare con il futuro Presidente del Consiglio, a Scalfaro fu attribuita la frase “Devo insistere: per motivi di opportunità quel nome non può andare”. Il comune favore riservatogli dai nuovi partiti emersi dal crollo della cosiddetta “Prima Repubblica” si spaccò quando – nel dicembre del 1994 – invece di sciogliere le Camere dopo le dimissioni del governo uscito dalle elezioni di sei mesi prima (come richiesto insistentemente dall’uscente premier Berlusconi), tentò con successo di formare un nuovo governo in base al dettame costituzionale secondo il quale, una volta eletto dal popolo sovrano, la sovranità è esercitata dal Parlamento; a sostegno della sua iniziativa fu ricordato che la Costituzione prevede che la funzione di deputati e senatori della Repubblica sia esercitata senza vincoli di mandato, onde è consentito cambiare schieramento ed appoggiare formazioni politiche diverse dalla lista in cui si è stati eletti.

Quando Scalfaro svolse le consultazioni, ascoltò anche le componenti interne ai partiti per comprendere se vi erano in Parlamento i voti per un’ipotesi di “governo tecnico”: ricevutane rassicurazione – anche grazie all’opposizione dei presidenti delle Camere Carlo Scognamiglio e Irene Pivetti alla fine anticipata della legislatura – in un famoso discorso di fine anno invitò Berlusconi ad un passo indietro, promettendo che il nuovo governo avrebbe avuto un incarico a termine ed un presidente di fiducia dello stesso Berlusconi. Questi scelse il suo Ministro del Tesoro Lamberto Dini, ed assistette nell’anno successivo al progressivo spostamento dell’asse del governo così nato verso il centro-sinistra, che vinse le successive elezioni.

Lo snodo decisivo per tale spostamento fu la sfiducia individuale votata al ministro della giustizia Filippo Mancuso: questi, accusato di aver dato corso ad una serie di ispezioni ministeriali nei confronti dei giudici che indagavano su Berlusconi, si difese in Senato con un feroce discorso in cui scelse come bersaglio proprio il Quirinale. Ripescando la vicenda Sisde, Mancuso affermò che Gaetano Gifuni avrebbe cercato di orientare la sua relazione nella precedente veste di presidente della commissione governativa di indagine: la relazione sarebbe dovuta cambiare, e l’affermazione della non illiceità della dazione mensile di danaro da parte del Sisde – a Scalfaro quando era ministro dell’interno – si sarebbe dovuta trasformare nell’affermazione dell’inesistenza del fatto storico di tale percepimento di somme.

Queste ed altre circostanze (tutte riconducibili, comunque, al cosiddetto “ribaltone” del dicembre 1994) portarono, nel centro-destra, alla nascita di una diffusa ostilità verso il Capo dello Stato, accentuata dopo la vittoria del centro-sinistra nelle elezioni del 1996: segnatamente, la legge sulla “par condicio” (termine da lui stesso impiegato in più di una pubblica esternazione, per affermare l’esigenza della parità delle armi comunicative sulle reti televisive per tutti gli attori politici) fu vista come un attacco alla potenzialità più dirompente del sistema mediatico di Berlusconi.

Nell’ultima parte del settennato gli attivisti giovanili di Alleanza nazionale contestarono il Capo dello Stato nei suoi viaggi nelle città italiane. Mentre la sua caratteristica più gelosamente custodita era stata l’affermazione di un ruolo super partes, agli attacchi ricevuti rispose invocando sempre più esplicitamente il sostegno dalla maggioranza di governo. Ne derivò un ruolo più dipendente da quest’ultima, coronato dal fatto che appena divenuto senatore a vita votò la fiducia al secondo governo D’Alema, cioè ad un Presidente del consiglio da lui stesso nominato per il primo mandato.

È stato l’unico Capo dello Stato (tra quelli cessati dalla carica) della storia d’Italia a non aver nominato alcun senatore a vita, a causa di un problema legato all’interpretazione della Costituzione: non è chiaro infatti se il limite di 5 senatori a vita sia da intendersi come limite massimo di nomine a disposizione di ciascun Presidente oppure a disposizione di ciascun Presidente della Repubblica come figura istituzionale (quindi comprendendo anche quelli nominati dai predecessori). Il Presidente Scalfaro era fedele alla seconda interpretazione, a differenza dei suoi due predecessori Pertini e Cossiga, che avevano nominato 5 senatori a testa.

Terminato il suo mandato da Capo dello Stato, Scalfaro divenne Senatore a vita in quanto ex Presidente della Repubblica, aderendo al gruppo misto.

Nel corso della XIV Legislatura ha presentato numerosi disegni di legge riguardanti l’emigrazione e ha manifestato il dissenso soprattutto per la proposta di riforma costituzionale avanzata dalla Casa delle Libertà e dal terzo governo Berlusconi.

Da senatore a vita si è dedicato soprattutto a girare l’Italia, partecipando a numerosi incontri sulla difesa della Carta costituzionale, il no alla guerra e l’impegno dei cattolici in politica. Ha, inoltre, dato avvio assieme ad alcuni giovani collaboratori (Alberto Gambino, Stefano Magnaldi, Mattia Stella) ad iniziative nel campo della formazione dei giovani alla vita politica (tra queste in particolare il Laboratorio per la polis, rete di cultura e formazione politica).

Durante la primavera del 2006 è stato Presidente del Comitato “Salviamo la Costituzione” e a capo del Comitato per il No al Referendum sulla Riforma Costituzionale, composto dai partiti del centrosinistra, dalle principali organizzazioni sindacali, dai Comitati Dossetti, dalle associazioni Astrid, Libertà e Giustizia, Anpi, Acli, Giovani per la Costituzione, Laboratorio per la polis e altri. Promosse dunque una bocciatura per via referendaria, poi avvenuta col 61,3% il 25 e 26 giugno 2006. In questa veste è stato nuovamente oggetto delle critiche del centrodestra, promotore della riforma poi bocciata, insieme al suo successore al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi, anche lui schieratosi per il No al referendum (tuttavia successivamente, poiché ancora in carica sul Colle fino al mese di maggio).

In apertura della XV Legislatura è stato Presidente provvisorio del Senato della Repubblica (perché senatore più anziano dopo Rita Levi-Montalcini che si era dichiarata non in grado di svolgere quel compito), fino all’elezione alla presidenza di Franco Marini, da lui sostenuto.

Il 19 maggio 2006, come già aveva anticipato, ha votato la fiducia al governo Prodi II. Durante la XV Legislatura ha votato più volte in favore del governo Prodi e della maggioranza di centro-sinistra, anche in occasioni determinanti e con voti di fiducia.

Nel 2007 ha aderito al Partito Democratico, pur non iscrivendovisi, ed è stato presidente del Comitato pro Veltroni-Franceschini nel Lazio per le primarie del 14 ottobre 2007.

Ha presieduto l’associazione Salviamo la Costituzione nata dall’omonimo comitato costituitosi nel 2006.

Nel settembre 2011 è stato chiesto al sindaco di Roma Gianni Alemanno di conferirgli la cittadinanza onoraria.

Si è spento il 29 gennaio 2012 all’età di 93 anni.