A Palazzo Fibbioni una bella cornice di pubblico e il forte messaggio finale del Nunzio alle Istituzioni
L’AQUILA – Giovedì sera una bella cornice di pubblico ha riempito la splendida Sala Rivera di Palazzo Fibbioni e ha salutato l’uscita del nuovo libro “L’AQUILA – Quarto di S. Maria”, edito da One Group Edizioni, l’ultima gemma di Mons. Orlando Antonini, Nunzio apostolico ed insigne studioso di architettura religiosa e urbana. Una splendida serata di storia della città e delle sue meraviglie architettoniche e artistiche. Con l’Autore sono intervenuti all’evento di presentazione Arturo Narducci, direttore generale Taddei SpA, Francesca Pompa, presidente One Group Edizioni, Carlo De Matteis, già professore ordinario di Letteratura italiana all’Università dell’Aquila, Lorenzo Bartolini Salimbeni, architetto e professore ordinario di Storia dell’Architettura all’Università di Chieti-Pescara. Brillante, come sempre, l’apertura della serata con Angelo De Nicola, giornalista e scrittore, che ha moderato gli interventi. In questo nuovo libro, un viaggio sempre denso di spunti d’interesse, Mons. Antonini ci accompagna nei Palazzi e negli edifici dello storico Quarto di Santa Maria Paganica, laddove recuperi monumentali sono stati realizzati dalla Taddei Spa, primaria impresa aquilana e General Contractor che ha realizzato in Italia e all’estero importanti lavori in opere pubbliche rilevanti, ma anche impegnativi restauri in monumenti simbolo come il Colosseo, la Domus Aurea, la Casina Farnese sul Colle Palatino, solo per citarne alcuni.
L’AQUILA. QUARTO DI S. MARIA
(Palazzo Fibbioni, 8 novembre 2018)
«Il mio intervento mira anzitutto ad esprimere gratitudine. Gratitudine al prof. Lorenzo Bartolini Salimbeni al quale mi lega una lunga proficua frequentazione ed amicizia con interessi culturali comuni e convergenze valutative in svariati temi storico-architettonici: la qualità con cui ha interpretato ed esposto le principali tesi di questa mia nuova pubblicazione è stata palese. Gratitudine al caro prof. Carlo De Matteis, che ha tracciato con la sua ben nota competenza il quadro storico dell’Aquila delle origini e dell’attualità. È vero che alcune questioni sono ancora aperte. La ragione principale che mi induce a fissare la fondazione dell’Aquila al 1229 di Gregorio IX è che nel diploma di Corrado IV del 1254 non è solo autorizzata la ‘fondazione’ della città ma anche la sua elevazione a capoluogo di territorio (“ab Urno Putrido, dice il testo, usque per totum Amiternum”): è come ‘elevare a Provincia’ una città, che evidentemente deve già esistere ed essere anzi già robusta. Un grazie cordialissimo ad Angelo De Nicola che ha monitorato questo evento culturale con la sua consueta sostanzialità e spigliatezza. Un grato riconoscimento dirigo alla One Group – a Francesca, Duilio e collaboratrici – che con la passione che li contraddistingue ci hanno offerto un altro dei loro esemplari prodotti. E alla Taddei S.p.A., che mi ha chiesto di scrivere sui complessi edilizi da essa recuperati nel Quarto di S. Maria, tra cui il palazzo Fibbioni-López che ci accoglie sotto questo splendido soffitto dipinto cinquecentesco, vada dato atto per avermi indotto a trattare di architettura civile e di urbanistica quando fino ad ora mi ero occupato di architettura sacra. Del resto nell’esame valutativo dell’architettura delle chiese, oltre al contesto religioso, culturale, politico-sociale ed economico del tempo in cui esse erano state fondate e di cui costituiscono epifania estetica, era naturale toccare anche il contesto civile ed urbanistico in cui esse si distribuiscono, costituendo le emergenze più caratterizzanti ed a volte i nuclei di partenza generatori della stessa strutturazione urbana della città. È questo che, nel libro che si presenta, mi ha permesso ad esempio di giungere a conchiudere che il Quarto di S. Maria non si è formato per ultimo, nel ‘300, secondo alcuni autori, bensì contemporaneamente agli altri tre, nel ‘200. Ciò lo si può dedurre dalla stessa Cronaca Aquilana di Buccio di Ranallo nella quale, circa la lotta scoppiata tra Paganica e Bazzano a fine ‘200, il cronista poeta annota: «A mille ducento anni novantatre passati / Paganeca et Bazano se foro corrucciati; … e con Paganisci era tutto lo quarto loro». Il ‘quarto’ dei paganichesi in quel 1293 non era altro, appunto, che il Quarto di S. Maria, pertanto un Quarto già esistente e a quanto pare già da tempo. Carlo De Matteis, mi sembra giustamente, mi avverte che l’anno 1276 ripreso dal Lopez quale data di creazione dei 4 Quarti si rivela infondato. Ora, il fatto che i locali siano già distribuiti logisticamente nell’urbanistica storica della città in quattro parti secondo la provenienza geografica, farebbe desumere che anche la loro organizzazione amministrativa in 4 Quarti fosse prefigurata prima ancora del 1276 predetto, nel modello istituzionale cittadino stesso, cioè, ideato dai rifondatori della seconda Aquila dopo la distruzione della prima da parte di re Manfredi.
Bene. L’arch. Bartolini Salimbeni ha già ben illustrato quanto attiene all’architettura dei cinque aggregati monumentali da me esaminati. Credo quindi interessante passare qui a ciò che negli studi mi ha fatto diciamo ‘tracimare’ naturalmente dall’architettura sacra all’urbanistica oltre che all’architettura civile. È stato il costatare la strutturale valenza urbanistico-insediativa delle chiese. La cosa è evidente più nel Contado. Prendete l’ex parrocchiale di San Michele nel mio Villa S. Angelo, la parrocchiale di Sant’Andrea a Stiffe, e S. Balbina ex parrocchiale di S. Demetrio, oggi detta il Crocifisso, site stranamente tutte fuori paese, il Crocifisso addirittura in piena campagna, lontana dal paese ben tre-quattro chilometri ma restata parrocchiale fino addirittura al 1622. Di questa loro collocazione isolata e lontana dall’abitato, tenuto conto della funzionalità cui devono rispondere le costruzioni sacre – il servizio liturgico e la cura d’anime – non si afferra alla prima il criterio: la loro accessibilità e fruibilità dovrebbero essere tra i primissimi dei requisiti funzionali. Si comprende il caso di chiese isolate in insediamenti di tipo policentrico – Santa Maria a Bagno, Santi Nicandro e Marciano a Roio, ecc. – dove il criterio della scelta del sito isolato è ovviamente di servire più frazioni di uno stesso castello. Invece per le parrocchiali isolate in insediamenti di tipo monocentrico, si desume che altro dové essere il criterio fondazionale di esse, ed altro quello che guidò l’impostazione dei relativi borghi. La chiesa parrocchiale isolata non può essere né coeva e né successiva alla formazione dell’abitato, giacché in tal caso gli edificatori l’avrebbero progettata vicino o in mezzo al borgo. L’edificio sacro extra preesiste pertanto, necessariamente, alla fondazione dei paesi. Tale impostazione topografica isolata rientra nel noto fenomeno trasformativo individuato dal Toubert per la contigua area sabino-laziale e non può dipendere che da un’organizzazione ecclesiastica e da sistemi di cura d’anime di diversa natura, succedutisi nel tempo, a loro volta da mettere in rapporto con le note vicissitudini insediative locali verificatesi tra X e XII secolo: ossia il passaggio dall’assetto insediativo sparso ad un altro contrario, quello accentrato, che va sotto il nome di incastellamento. Nell’assetto anteriore – una facies insediativa, socio-economica, politica ed amministrativa durata oltre mezzo millennio dal VI secolo al X-XI – avendosi insediamenti diffusi e non comunità raccolte in villaggi, le chiese ‘battesimali’, dette pievi, furono distribuite capillarmente ai gangli della trama di percorsi, in ragione della disseminazione dei fedeli. Fu il cosiddetto sistema pievano o plebanale. Quando invece nell’XI-XII secolo, a seguito delle invasioni saracene e ungare ma soprattutto dell’esplosione demografica e dei radicali cambi nell’organizzazione economica, le popolazioni cominciano a coagularsi in borghi – il detto fenomeno dell’incastellamento, cioè, sia di tipo monocentrico che policentrico – le chiese plebane, funzionali al precedente assetto insediativo, si ritrovarono isolate e furono in massima parte abbandonate, eccetto le cattedrali rimaste isolate per la distruzione delle città romane in cui erano, quelle devozionali e quelle che o si fossero ritrovate nei pressi dei nuovi abitati, oppure la cui collocazione topografica si fosse rivelata idonea all’accentramento edilizio. Di queste chiese antecedenti all’incastellamento e coincidenti con l’epoca storica longobardo-franca dal punto di vista politico, nonché con l’epoca farfense dal punto di vista socio-economico e culturale, pervennero fino a noi solo lacerti scultorei di spoglio: ricchi resti di arredi presbiteriali, portali, infissi liturgici ed ornati di stipiti e architravi, con disegni a treccia, a stuoia, a nastri ripiegati a lance o a girelli. La scomparsa delle chiese longobardo-franche in questione è fenomeno generalizzato, non limitato all’Abruzzo e all’Aquilano. Si trattò di un fenomeno diciamo fisiologico. Nel vecchio sistema plebano cioè, che come detto era rapportato al tipo di insediamento sparso, la cura d’anime s’era dovuta esercitare in forme e strutture disseminate. A partire dal Mille, per la crescita demografica che richiedeva nuova edilizia e specialmente per il menzionato fenomeno dell’incastellamento, sorse la necessità di vani di dimensioni capaci di accogliere le comunità appena formate, per il soddisfacimento dei loro nuovi bisogni, i liturgico-ecclesiali e quelli organizzativi e civici; di qui l’inadeguatezza allo scopo, ormai, delle architetture dell’anteriore epoca longobardo-franca, perché disseminate sul territorio, e la necessità, pertanto, di disporne di più a portata di popolo. Occorse fabbricarne di nuove oppure, se riutilizzabili le vecchie logisticamente, sostituirle o ingrandirle. È il motivo base della pressoché universale scomparsa delle preziose chiese alto-medioevali e, al contempo, della comparsa quasi simultanea di quel ‘bianco manto di chiese’ – scrisse suggestivamente il monaco Raudulphus Glaber – che coprì l’Europa a partire dal Mille: l’avvio, cioè, del processo di accentramento delle popolazioni in borghi e ville, l’incastellamento sopra segnalato. In conclusione proprio nel loro attuale ordine distributivo e logistico, apparentemente enigmatico, le parrocchiali isolate sono rivelatrici di un processo di transizione da una determinata struttura di cura d’anime, quella del plebanato, ad un’altra antitetica, quella parrocchiale, a loro volta dipese dall’avvicendarsi, sovrapporsi e compenetrarsi l’uno all’altro nel periodo storico che è l’XI-XII secolo, di opposti assetti e criteri insediativi del territorio. Signore e Signori, l’ho detto nel recente convegno della Taddei S.p.A. e della One Group: l’architettura civile in ricostruzione all’Aquila sta restituendo tesori artistici impensati, tanto della città rinascimentale quanto di quella medioevale, che la ricostruzione settecentesca aveva occultato. Sicché una volta questa ricostruzione portata a termine, col patrimonio monumentale recuperato come la Taddei S.p.A. ha fatto nel Quarto di S. Maria, le stratificazioni storiche riacquisite o messe a miglior vista, gli edifici messi in sicurezza, la cinta muraria valorizzata nelle sue torri, porte e antemurali, la riqualificazione di aree e la delocalizzazione di qualche caseggiato in più incongruo sulle mura civiche, riavremo pur sempre una realtà urbica tra le più pregevoli d’Italia, che farà acquisire all’Aquila quella capacità di attrazione e competitività artistica, quindi anche turistica, su cui andiamo insistendo da tempo in vista della ripresa economica ed occupazionale delle nostre aree interne. Nello stesso convegno ho sentito temi importanti a questo proposito, come quello secondo cui il divario che penalizza l’Italia non è più tanto, oggi, quello tra Nord e Sud quanto il divario tra aree interne, appunto, e aree costiere. Mi ha alquanto deluso, invece, l’altra pur giusta osservazione, che cioè è necessario individuare una ‘vocazione’ alla città e al suo territorio, una volta la ricostruzione ed il flusso dei finanziamenti terminati. Ma come, a 10 anni dal sisma siamo ancora alla ricerca di una vocazione per la città e le aree interne? Non aveva già l’OCSE, nel 2012, dato indicazioni chiare al riguardo? Per l’Aquila la vocazione indicata sarebbe quella di città turistica, universitaria, amministrativa, elettronica e d’alta tecnologia e ricerca. Questa indicazione dell’OCSE è stata ignorata completamente. Se non era recepibile, se ne sarebbero dovuto dare le ragioni e soprattutto proporne un’altra, di vocazione. Sembra essere in un dialogo tra sordi. Spero proprio che dopo aver perso il treno della storia per una ricostruzione di maggior qualità, non perdiamo anche quello della ripresa occupazionale ed economica di un territorio montano che, non avendo evidentemente vocazione industriale, non vede altra possibilità in merito se non in quella indicata dall’OCSE. La si assuma pertanto, di grazia, una buona volta, e ad essa ci si adegui nei criteri di ricostruzione almeno per quel che è ancora possibile dopo 10 anni, e di programmazione della nuova economia di base delle nostre aree interne!».È un bilancio con un utile netto a doppia cifra per la Bcc di Busto…
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