Tutto ebbe inizio quando Lorenzo Da Ponte, in fuga dai debiti di un crack impresariale, il 4 giugno 1805 approdò sulle sponde del Delaware preferendo barattare la grande riconoscibilità guadagnata nei teatri di tutta Europa con un’anonima attività di droghiere. Negli anni a seguire, rindossati i panni del letterato, egli conquistò mano a mano la stima della buona società dell’East Coast avvezzandola al gusto e alle tradizioni del Bel Paese sino a ottenere la prima cattedra di Lingua e Letteratura Italiana in un’università americana, l’allora Columbia College. Proprio da quegli scranni, non meno che dalla sua libreria italiana a Broadway, egli maturò l’idea di instillare nei newyorkesi l’amore per l’Opera, ben sapendo – com’ebbe a scrivere nelle sue Memorie – «quali e quanti vantaggi ne ricaverebbe la nostra letteratura, e quanto si diffonderebbe la nostra favella per gli allettamenti del dramma italiano, che per tutte le colte nazioni del mondo è il più nobile e il più allettevole di quanti spettacoli l’ingegno umano ha inventato». Ben presto questi discorsi suscitarono l’interessamento di un appassionato mercante di vini, Dominick Lynch, e la costituzione di una società con Stephen Price, solerte direttore del Park Theatre, la sala inaugurata nel 1798 presso l’attuale Ponte di Brooklyn che per cinquant’anni accolse a Manhattan le produzioni di maggior prestigio prima di essere distrutta da un incendio. Attraverso una serie di contatti europei i due riuscirono a scritturare il leggendario tenore spagnolo Manuel García, primo Almaviva del Barbiere rossiniano e capostipite di una famiglia di cantanti che ha fatto la storia del melodramma ottocentesco, organizzando per la sua compagnia fra il 1825 e il 1826 la prima stagione di Opera italiana in terra statunitense. La sera di martedì 29 novembre 1825, quando la troupe di Manuel García debuttò al Park Theatre con Il barbiere di Siviglia davanti a una scelta cittadinanza, l’impressione fu enorme. Fino al 30 settembre 1826 l’Opera italiana tenne banco con settantanove recite, registrando quasi sempre il tutto esaurito. Oltre al Barbiere il repertorio rossiniano fece la parte del leone con Tancredi, Otello, Il Turco in Italia e La Cenerentola, ma acclamate furono anche Giulietta e Romeo di Zingarelli e il Don Giovanni di Mozart allestito in omaggio a Da Ponte. Quando a fine stagione la compagnia decise di proseguire l’esperienza americana dirigendosi in Messico, le defezioni tuttavia furono numerose e importanti: grazie all’appeal di una città che si era mostrata assai benevola nei loro confronti, diversi cantanti decisero di restare a New York. Stessa sorte toccò a Maria, che il 23 marzo, alla vigilia del suo diciottesimo compleanno, anche per affrancarsi dalla personalità asfissiante di suo padre aveva accettato di sposare il quarantacinquenne uomo d’affari Eugène-Louis Malibran – assumendone il cognome con cui è passata alla Storia –, senza peraltro sospettarne l’imminente bancarotta che la costrinse a ripartire da sola per l’Europa già nel novembre del ’27. Per colmare il vuoto lasciato dalla Malibran in città Da Ponte, un po’ per familismo, un po’ per amor di patria, forsanche per quella vecchia velleità impresariale che con alterne fortune aveva spesso associato alla professione di poeta, pensò di poterla rimpiazzare con sua nipote Giulia, promettente allieva veneziana del tenore Antonio Baglioni. Dopo vari tergiversamenti e qualche vicissitudine per ottenere il passaporto, il 18 febbraio 1830 Giulia sbarcò finalmente in riva all’Hudson. La calorosa accoglienza tributatale – sottolinea Da Ponte – da «i più rispettabili signori di New York, e sopra tutto gli allievi miei e le loro famiglie» le procurò alcune applaudite esibizioni private, spalancandole le porte del Park Theatre per tre accademie, come allora si chiamavano i concerti, fruttati a zio e nipote «la bella somma di mille e dugento piastre per le due prime comparse, e la metà dell’entrata d’un benefizio», ossia di un incasso a favore dell’artista, «per la terza». Fu così che Da Ponte maturò l’idea d’intercalare parte di quel recital in una cornice narrativa costruita ad hoc sulla personalità di Giulia, mettendo a punto un canovaccio che nel giro di pochi giorni ebbe la forma e i caratteri d’un vero libretto d’opera, l’ultimo della sua vita.
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