Manzini: “Le donne possono rompere il muro di omertà nelle famiglie di ‘ndrangheta”

OnoreLo ha affermato il magistrato Marisa Manzini intervenuto alla presentazione di “Onore e dignitudine” delle sociologhe Sabrina Garofalo e Ludovica Ioppolo. Il libro racconta storie di disubbidienza attraverso il metodo della contro narrazione per dare spazio alle vittime della mafia nel gran clamore mediatico dei “professionisti dell’antimafia”.

La scelta è stata quella di raccontare storie di disubbidienza. Anche fare luce e illuminare le zone d’ombra dove si insinua la cultura del sospetto. Quale possa essere il limite che porta allo sconfinamento, alla zona grigia, spesso sfugge. Per questi motivi è fondamentale trovare un altro linguaggio per raccontare ciò che rimane ai margini, escluso. È questo l’itinerario scelto da due giovani sociologhe ricercatrici, Sabrina Garofalo e Ludovica Ioppolo con “Onore e Dignitudine – storie di donne e di uomini in terra di ’ndrangheta”. Si tratta, come l’hanno definito le autrici nel corso della presentazione, di una “contro narrazione”, un metodo che mette al centro il racconto di vita di chi è stato escluso dalla “narrazione corrente sulla ‘ndrangheta”. Le due ricercatrici hanno così sperimentato l’incontro con le storie delle persone, una condivisione in una terra e in un territorio per conoscere e interpretare i fenomeni sociali, antropologici e culturali.

Il libro nasce a Vibo dall’incontro con il testimone di giustizia Matteo Luzza, che ha raccontato la tragica fine del fratello, ucciso per caso, perché “l’onore e la dignitudine” rappresentano il codice dove ogni sentimento di umanità viene annientato. Pino Russo Luzza è stato ucciso per una “questione di dignitudine”, cioè di onore e potere. Sono piccole storie che però ci raccontano un modo diverso di interpretare la realtà e di raccontare la vita delle famiglie che si sono trovate per caso nella rete di quel mostro che è la ‘ndrangheta. Il libro è fatto di incontri, di vissuti, di desiderio di demistificare la narrazione corrente, di farci capire che la ‘ndrangheta “appartiene ad ognuno di noi”, perché da un momento all’altro tutti potremmo essere vittime predestinate. Come è accaduto a Lollò Cartisano, a Demetrio Quattrone, a Vincenzo Grasso, ad Alessandro Bozzo, a Massimiliano Carbone, a Fabrizio Pioli, ad Angela Donato e a suo figlio Santo Panzarella, e a tante altre storie considerate minori, secondarie, che non hanno posto nel gran clamore mediatico e che sono state risucchiate dal buco nero che sta devastando questa terra e il destino di molte famiglie.

L’importante lavoro è stato presentato nei giorni scorsi (6 maggio, sala conferenze del Polo culturale di Santa Chiara), grazie all’impegno di “Libera Memoria” del coordinamento di Vibo. A caratterizzare l’incontro la presenza di Marisa Manzini, Procuratore aggiunto di Cosenza della Procura della Repubblica di Cosenza (per diversi anni alla DDA di Catanzaro), la quale ha scritto la “Prefazione”. Il magistrato in prima linea nella lotta contro il fenomeno della criminalità in Calabria, ha ribadito l’importanza della prevenzione, in particolare la scuola e la cultura hanno un ruolo fondamentale, in quanto i giudici intervengono quando il reato è stato già commesso. Dopo aver sottolineato che è “ritornata volentieri a Vibo” (è stata per diversi anni Pm alla Procura ed è ancora impegnata nel processo a seguito dell’operazione ’operazione antimafia denominata “Black money” contro il clan Mancuso), la Manzini ha spiegato che “finalmente si dà spazio alle vittime che hanno avuto un ruolo defilato, meno rilevante nel processo”. Il magistrato ha insistito sul ruolo della prevenzione e dell’importanza di parlare ai ragazzi. Per questo la scuola e gli insegnanti , ha ribadito, “possono cambiare il destino di questa terra”. Un compito che si è assunto Matteo Luzza, come testimone di giustizia, andando ad incontrare anche i ragazzi che hanno commesso dei reati. Un ruolo importante – ha proseguito la Manzini – nel rompere il muro di omertà che circonda la ‘ndrangheta, lo possono recitare le donne: “Le diverse madri che si ribellano per dare un futuro diverso ai loro figli, è un segno che le donne possono invertire questa rotta di morte e di violenza, anche per i bambini che crescono nelle famiglie di ‘ndrangheta”. Nel corso del dibattito inoltre, rispondendo ai diversi interventi del pubblico che denunciavano l’assenza dello Stato sul territorio, il Procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Cosenza ha sottolineato il clima di delegittimazione a cui sono sottoposte le vittime di mafia e l’intreccio tra ambienti ‘ndranghetisti con esponenti della politica, che non hanno permesso di avere una legislazione più efficace nei confronti di chi compie dei crimini. Particolare interesse assumono alcuni passaggi che si trovano nella sua “Prefazione” al libro della Garofalo e della Ioppolo. L’allora giovane magistrato inquirente (piemontese di origine) racconta il suo incontro con la Calabria e il fenomeno criminale della ‘ndrangheta sotto il profilo sociale, culturale e antropologico, a partire dal 1993, quando inizia la sua esperienza alla Procura della Repubblica del Tribunale di Lamezia come Sostituto procuratore, si è trovata di fronte le enormi contraddizioni di questa terra. “In Calabria la democrazia non esiste” scrive, perché ha potuto constatare un controllo “pieno e totalizzante delle persone, delle istituzioni e dell’economia del territorio” da parte della ‘ndrangheta. Cioè vi è l’affermazione del “potere – inteso come sostantivo e come verbo – imponendo e rafforzando un sistema antitetico a quello dello Stato”. In una simile situazione sociale, “la realizzazione dei principi di dignità della persona umana, di libertà, uguaglianza, lavoro e pari opportunità per tutti i cittadini, saranno possibili solo se verrà esclusa la ndrangheta dal territorio calabrese”. Un quadro che non lascia nessuna speranza visto la presenza sempre più pervasiva di questo cancro che ha devastato il corpo della società calabrese e nazionale.

La presentazione è stata introdotta e coordinata da Giovanna Fronte. L’avvocato che difende diversi testimoni di giustizia (tra cui Nello Ruello, primo caso nel Vibonese ), ha messo in luce che il libro è rivolto ai giovani e che bisogna avere “la consapevolezza che ogni persona che uccide, uccide anche noi” e quindi è necessario mantenere viva la memoria. Ad aprire gli interventi mons. Giuseppe Fiorillo (Referente Libera di Vibo). Il sacerdote ha sottolineato che “Libera memoria” cerca di dare voce alle vittime, come accade nella giornata della memoria nazionale del 21 marzo; si tratta, ha aggiunto, non di storie “minori” ma di martiri, per i valori grandi di giustizia; in merito ha citato lo scrittore cristiano e padre della Chiesa Tertulliano (150-220) , ricordando che “il sangue dei martiri è seme dei cristiani e produrrà nuovi martiri e nuovi mondi”. Ha concluso infine con l’immagine della semina: “Questo libro semina, ma anche questi momenti di incontro e di presentazione sono importanti per seminare”.

Molto intenso per la testimonianza e per il valore umano, etico e pedagogico l’intervento di Matto Luzza. Il testimone di giustizia ha ribadito la finalità della sua attività per richiamare la memoria delle vittime di mafia che svolge costantemente con “Libera” al fine di fare opera di consapevolezza anche nei confronti di chi è stato autore di delitti orribili. Si tratta di una missione per rendere viva la memoria dei propri familiari uccisi dalla mafia per caso, come il Fratello Giuseppe: “Per i familiari è vitale sapere che continueranno a vivere con questi racconti”; Luzza ha ribadito che siamo tutti a rischio, come è accaduto per sua famiglia che per una questione di “dignitudine”, il fratello è stato trucidato con spietata efferatezza. E con parole cariche di emotività ha spiegato: “Noi siamo riemersi dopo aver incontrato tutte queste persone che lottano contro la criminalità”. Poi con grande determinazione morale Luzza ha ammonito: “Non riusciranno né i proiettili, né il tritolo a fermare la voglia di raccontare! Quelle storie ci chiedono di fare altro. La libertà è più importante: vince sopra ogni cosa.” Infine con rinnovata passione e impegno civile ha spiegato: “Ci sporchiamo le mani per dare un segno di speranza, di risveglio delle coscienze, come lo studio, la cultura. Che cosa ci chiedono i nostri morti? Ci chiedono questo. Questo è il più bel regalo che possiamo fare per i nostri martiri”.

Significativo inoltre l’analisi antropologica e sociale di Francesca Viscone (scrittrice, giornalista e dirigente scolastica, tra le sue opere si ricorda “La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media”) attenta ai fenomeni sociali e culturali del nostro territorio. La scrittrice ha esordito con una provocazione: “Mi stupisco degli uomini nel manifestare il peggio; al contrario la bontà è scontata, banale, non ha fascino; mentre l’eroe negativo è affascinante”. La Viscone ha fortemente criticato la mitizzazione che viene costruita dal mondo mediatico del fenomeno ‘ndrangheta, ma anche nell’esaltare i personaggi negativi. Contro questa narrazione della morte è necessario, ha ribadito, “costruire resistenze attraverso l’amore e la felicità, comunicare modelli positivi sotto il profilo estetico attraverso una pedagogia della bellezza. L’errore che fa la nostra società – ha aggiunto – è costruire un eroismo, un mito, come nei mass media”. Dentro questa visione in modo efficace ha definito il mafioso un “perdente radicale” citando il libro (pubblicato nel 2007 in Italia) del poeta e scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger, in quanto “il mafioso non ha amore” perché a lui interessa solo distruggere, operare il male;” mentre “il bene e la bellezza nascono dalla libertà”; per questo è “molto bello poter restare insieme ai nuovi resistenti”, ha infine chiosato la scrittrice.

onore e dign