Il ricordo di don Lorenzo Milani: 50 anni esatti dalla scomparsa del priore di Barbiana

A cinquant’anni esatti dalla scomparsa di don Lorenzo Milani e da “Lettera a una professoressa”, l’insegnamento è rimasto nella “lettera” di quel testo.  Un protagonista di quella esperienza e del suo sogno, Eduardo Martinelli, ha richiamato la rivoluzione pedagogica e culturale della scuola di Barbiana: il “tempo scuola” era un tempo “che proveniva dal futuro” perché “non esiste presa di coscienza quando il processo educativo corre, o comprensione quando non abbiamo il tempo di riflettere, quando non riusciamo mai a leggere in classe un classico”. In questa fase epocale, in cui i cambiamenti sono talmente radicali, i giovani sono incapaci di affrontare il contesto di realtà, perché la scuola non è più scholé, “il tempo della libertà e dell’indugio”, come è stata concepita da Platone nel Timeo e da don Lorenzo Milani a Barbiana, “perché se il futuro non retroagisce sul nostro pensiero, non esiste progettualità, non esiste progetto di vita”.

Don Milani

“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete…”. Queste parole sono l’incipit di “Lettera a una professoressa”, pubblicata poco dopo la morte di don Lorenzo Milani, avvenuta precisamente cinquant’anni fa, il 26 giugno del 1967. Quel testo sembrava presagire ad una rivoluzione pedagogica e culturale nel mondo della scuola e della società italiana. Sembrava… perché è come se quella lettera non fosse mai stata scritta e il suo contenuto, il valore di quell’esperienza, siano rimasti “lettera morta”. Nonostante Socrate, Gesù, la Montessori, Don Lorenzo Milani, la scuola continua a respingere i tanti “Gianni” e alcuni “insegnanti” o “docenti” giudicano in base a “pregiudizi”:  “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri, ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”. Come allora, il suo messaggio non ha perso la carica profetica e di denuncia. Anzi: le condizioni in cui versano le giovani generazioni oggi, sono contrassegnate dalla “disperata” ricerca di una speranza. L’istanza più forte della “Lettera” era proprio quella di colmare il vuoto di futuro della moltitudine dei ragazzi discriminati ed “esclusi” per tentare di rimuovere le ingiustizie del sistema scolastico e sociale.

Il lavoro di don Lorenzo alla scuola di Barbiana ha interrogato in profondità tante coscienze a partire dagli anni Sessanta e Lettera a una professoressa ha avuto un ruolo importante nel ’68: il suo messaggio ha attirato l’attenzione nelle più diverse prospettive, per essere stato fondamentalmente una scrittura collettiva che partiva dal basso. L’accusa fondamentale era rivolta ad una scuola che viveva fine a se stessa, di essere un’arma nelle mani di una ristretta elite, non per rispondere ai bisogni reali dei cittadini e dei più disagiati. Nonostante la rivoluzione pedagogica di quel testo, oggi la scuola fatica a scrollarsi da ambizioni autoritarie e autoreferenziali insite in chi esercita un potere: da una parte si indebolisce il ruolo dell’insegnante, dall’altra si restringe la libertà dell’insegnamento. Si pensi alla cosiddetta “Buona scuola” (Legge 107 del 31 maggio del 2015): nella sua qualificazione, essendo stata imposta dall’alto con metodo autoritario, siamo di fronte  ad una “cattiva scuola” che ha concentrato nelle mani del dirigente scolastico un potere e una responsabilità come quella di un manager di una impresa privata. Il rischio di ogni forma di potere, quando si perdono di vista i principi etici e i valori umani, è che si trasformi in autoritarismo. “Anche un preside di scuola media ha scritto: – La Costituzione purtroppo non può garantire a tutti i ragazzi eguale sviluppo mentale, eguale attitudine allo studio. – Ma del suo figliolo non lo direbbe mai. Non gli farà finire le medie? Lo manderà a zappare? Mi han detto che queste cose succedono nella Cina di Mao. Ma sarà vero? Anche i signori hanno i loro ragazzi difficili. Ma li mandano avanti”, raccontano i ragazzi di Barbiana.

Risuonano le parole Publio Terenzio Afro (commediografo berbero di lingua latina, attivo a Roma dal 166 a.C.): “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, Sono un uomo e non considero estraneo a me niente che sia umano. L’essere umano, con tutte le sue fragilità, con tutta la storia che si porta dietro e dentro –ma in particolare la vita di un bambino e di un adolescente che si affaccia in un mondo carico di incertezze e di insidie, scaraventato nella “società liquida”, nichilista o della post verità – non può essere considerato alla stregua di formule matematiche, algebriche o – adesso che siamo entrati nell’era dell’informatica – di algoritmi. L’insegnamento non lo si può demandare alle macchine intelligenti, ai nuovi robot, e annientare il rapporto umano, emotivo, risonante, iperestetico, del confronto e del dialogo; non potrà essere soltanto un post di un profilo su un qualsiasi social media.

È questo il destino dell’insegnamento? E quale sarà la funzione dell’insegnante? Quella di calcolare la media aritmetica e applicare dei criteri per discernere i “like” e i “followers”? Così gli esseri umani saranno ridotti ad ingranaggi di un sistema autoreferenziale dove l’uomo sarà soltanto una funzione  o al massimo un burattino. Come aveva profetizzato Luigi Pirandello, la vita sarà destinata a diventare“un’enorme pupazzata” in cui ogni “pupazzo umano” penserà di avere in mano la propria maschera da esibire sulla scena del mondo per sentirsi perfettamente alienato-integrato. Invece essere disarmati di fronte all’unicità dell’essere umano disorienta e rompe ogni categoria e ogni pregiudizio: “Ogni essere umano è unico e irripetibile in ognuno dei suoi istanti … E’ con l’unicità che cha inizio la possibilità della bellezza. L’essere vivente non è più un automa tra altri automi, né mero volto in mezzo ad altri volti. L’unicità trasforma ogni essere in presenza, che, proprio come un albero o un fiore, non smette mai di tendere, attraverso il tempo, verso la pienezza della propria fioritura, che è la stessa dimensione della bellezza”. Queste meravigliose parole sono di un filosofo sino-francese Francois Chang che in “Cinque meditazioni sulla bellezza” racconta il sentimento della bellezza che deve contrassegnare l’esperienza dell’essere umano e della conoscenza, così come aveva intuito Aristotele: “La meraviglia è il principio della conoscenza”. Ma – questa la nuova tendenza in una previsione dove gli automi saranno i nuovi protagonisti – per non correre il rischio di “considerare estraneo niente che sia umano”, cataloghiamo, classifichiamo, mettiamo le formule, le etichette, i voti, per essere rassicurati di non essere fuori dal sistema, che uccide ogni forma bellezza.

Come sarebbe, al contrario, importante ritornare all’etimo spirituale della parola“voto”!  All’origine esprimeva un desiderio, una volontà, una promessa, e aveva un valore di sacralità, un carattere religioso. Al contrario il voto a scuola identifica una valutazione, richiama la“valuta”, la moneta, un concetto prettamente economicistico, tradendo il valore della persona, il complesso delle sue doti e dei suoi talenti, il parto, appunto, della sua sensibilità e umanità; elementi questi, che non possono essere, per loro natura, misurabili o barattati. Tutto viene ridotto al modello neoliberista e neocapitalista, con la “favola” dei crediti e dei debiti, e quella delle competenze  (della competizione) e l’istituzione scolastica ha dovuto adattarsi ad una funzione mercantilistica, e rinunciare alla missione pedagogica, educativa e formativa per la crescita umana, culturale e spirituale dell’essere umano. Agli industriali interessa vendere prodotti, non formare coscienze. E’ raro incontrare uomini come Adriano Olivetti, che avevano a cuore la dimensione umana, il bene della comunità, la cultura e il sentimento della bellezza nel mondo del lavoro.

Nella Scuola si spendono tanti fondi per la famigerata Legalità, mentre si tradiscono le attese, le aspirazioni, i sogni di vite che cominciano a sbocciare: si toglie ai giovani la linfa dell’entusiasmo, non si danno né radici e né ali per volare; ma in compenso possono viaggiare sul web in modo vertiginoso, così non potranno più infastidire perché narcotizzati dal vortice o dalla spirale della velocità della super connessione, pur di restare disconnessi con se stessi e con la realtà che li circonda. I poteri (dal più alto al più basso) non hanno più bisogno di esercitare le tirannie, perché hanno trovato un anestetico silenzioso e invisibile per soggiogare la mente, l’anima e il corpo dei futuri cittadini.

Non bisogna mai dimenticarlo, quello dell’insegnante non è un mestiere: è principalmente una vocazione, una missione che si svolge e si realizza non solo in classe, ma in ogni momento e in ogni luogo. Invece il modello Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), del Pil (prodotto interno lordo) – tradotti “in soldoni” significano guerre, violenze, corruzione, ingiustizie, discriminazioni, distruzione del paesaggio, inquinamento, criminalità, annientamento dei sogni – ha imposto che la scuola diventi una azienda che sforni, come una catena di montaggio e smontaggio, prodotti da immettere nel mercato (si legga in proposito “il discorso sul Pil” di Bob Kennedy, pronunciato nel 1968, tre mesi prima di essere ucciso). Tutto ciò che non può essere quantificato e classificato, deve essere scartato. L’aria che si respira, i sentimenti, le emozioni, le passioni, i desideri, i sogni, i pensieri, i desideri, le idee, le intuizioni, per questi nuovi più pervasivi e vili tiranni della plutocrazia e della tecnocrazia, non hanno alcun valore. Gli studenti devono essere un ingranaggio idoneo e appropriato al sistema: se qualche “pezzo” della catena non risponde come da programma o magari si permette di esercitare l’arte del pensiero critico, o non funziona secondo i programmi prestabiliti (da chi e per chi?…), allora è da ritenere “pazzo”e quindi da espellere, da emarginare, da punire e mortificare con il voto (vuoto), perché può inceppare il Grande Meccanismo.

“Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l’ultimo della classe, ero il penultimo. (Evviva!) Refrattario dapprima all’aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione dei luoghi geografici, inadatto all’apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi …” Queste parole sono di un autentico “somaro” diventato uno dei più importanti scrittori francesi, Daniel Pennac che ha deciso di scrivere un “Diario di scuola” per raccontare “la sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti…” perché “la paura fu proprio la costante di tutta la mia carriera scolastica: il suo chiavistello”. E quando divenni insegnante la mia priorità fu alleviare la paura dei miei allievi peggiori per far saltare quel chiavistello, affinché il sapere avesse una possibilità di passare”. Ma, sottolinea ancora Pennac, “gli insegnanti che mi hanno salvato – e che hanno fatto di me un insegnante – non erano formati per questo. Non si sono preoccupati della mia infermità scolastica… hanno capito che era necessario agire tempestivamente… alla fine mi hanno tirato fuori. E molti altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita”.

Che fine a fatto la saggezza dell’homo sapiens sapiens? Dobbiamo andare con l’ippogrifo sulla luna come Astolfo per ritrovare il senno perduto di Orlando, scoprendo che sul satellite naturale del nostro Bel Pianeta si è depositato tanto senno, mentre sulla terra ne è rimasto soltanto qualche briciola perché divorato dall’homo artifex , a tal punto che Erasmo da Rotterdam ha dovuto fare “l’elogio della follia”, pensate, cinque secoli fa. Insegnare significa prima di ogni altra cosa lasciare dei segni luminosi nella mente, nell’anima, nel cuore, non certo mortificare o applicare gli algoritmi; significa tracciare un cammino disegnando nuovi orizzonti, non certo oscurando lo sguardo in fiore e chiudendo il sogno dentro lo spazio angusto di un credito o di un debito; significa far innamorare il ragazzo della vita, della sua bellezza e motivarlo per farlo sentire importante. L’insegnamento peggiore che si possa lasciare in eredità agli allievi, è creare una idiosincrasia verso gli insegnanti e la scuola, far partorire la propria frustrazione.

Socrate, dopo due millenni e mezzo di maieutica, si trova ancora costretto a bere la cicuta. Il sapere, la conoscenza, come è sottolineato nel Simposio da Platone, non è un vaso da riempire attraverso il semplice contatto con il maestro. I giovani non sono dei contenitori da riempire. Don Lorenzo Milani, nella “Lettera ai giudici” (1965), aveva ribadito che “l’obbedienza non è più una virtù” perorando la causa dell’obiezione di coscienza dei suoi ragazzi di Barbiana. E per questa sua posizione in coerenza con il messaggio evangelico e dei principi fondamentali della Costituzione, è stato condannato prima da quella Chiesa che si arrogava il diritto di richiamarsi a Cristo, e poi da un tribunale dello Stato che rinnegava la legge fondamentale della Repubblica, la Costituzione. In questa luce ritorna alla mente la vita esemplare di un altro straordinario personaggio dei nostri tempi, scomparso nel 1997, Danilo Dolci, che si è battuto contro le ingiustizie e contro ogni forma di oppressione fin dai primi anni ‘50 in Sicilia. Per la sua lotta non violenta è considerato il Gandhi italiano, ma lo si voleva condannare proprio da coloro che venivano accusati di essere conniventi con la mafia e di creare profonde ingiustizie nei confronti delle famiglie più povere, in particolare verso i bambini, le creature più deboli e indifese.

La principale missione della scuola di Barbiana e del lavoro di don Lorenzo Milani, sono stati quelli di lottare contro un’istituzione scolastica che non dava risposte ai bisogni educativi e formativi dei ragazzi. Nella recente visita che Papa Francesco ha compiuto per omaggiare la missione di don Lorenzo Milani (20 giugno), ha affermato che il priore di Barbiana è l’educatore che ha portato la realtà nella scuola. Lo ha spiegato ultimamente uno degli allievi della scuola di Barbiana, Eduardo Martinelli (Cosenza, 24 giugno, in un incontro dal titolo “Cambiare la scuola di può” organizzato dal Meetup 5 Stelle di Cosenza). Nel suo intervento ha sottolineato che i tempi di una volta erano “tempi lenti”, perché si legavano alla vera etimologia della parola scuola, Scholé, come è concepita nel Timeo di Platone, dove si distingue il “tempo dell’essere” dal “tempo del divenire”. Il tempo della scuola, ha ribadito,“è un tempo dell’indugio e della lentezza”, che i latini traducevano con otium, (contrapposto a negotium). Per questa ragione, ha aggiunto Martinelli, “non esiste presa di coscienza quando il processo educativo corre, o comprensione quando non abbiamo il tempo di riflettere, quando non riusciamo mai a leggere in classe un classico”. In questo senso, l’allievo di don Lorenzo Milani, che ha alle spalle, oltre all’insegnamento del priore di Barbiana, una lunga e importante esperienza didattica e pedagogica in progetti educativi, ha affermato un concetto che rovescia gli attuali curricula imposti dall’alto, secondo principi astratti lontani dai bisogni reali e dal tempo presente.  Nella scuola di Barbiana, ha richiamato Martinelli, “il tempo scuola era un tempo che proveniva dal futuro; mentre in questa fase epocale, in cui i cambiamenti sono talmente radicali, i nostri giovani sono incapaci di affrontare il contesto di realtà, perché la scuola non è più scholé.” La scuola di Barbiana, di don Milani, “partiva dal futuro: perché se il futuro non retroagisce sul nostro pensiero, non esiste progettualità, non esiste progetto di vita”. Oggi, invece, non si dà spazio al tempo lento (festina lente, affrettati lentamente, affermavano i latini) della riflessione, della vera cultura che fa crescere con il suo humus i semi delle parole e della coscienza. Per Martinelli, è stato tradito lo spirito del significato originario della parola “scuola”, luogo cioè in cui veniva speso il tempo libero in cui “la parola si dipana nel tempo e costruisce storie”.

Non si ha a cuore più la conquista della libertà attraverso il sapere per formare cittadini liberi, capaci di scegliere il proprio destino con pari dignità sociale, come è ribadito nell’art. 3 della Costituzione: “Il compito della Repubblica è quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana …”. E la tentazione di esercitare un potere con “pregiudizio” o per dare sfogo alle proprie debolezze umane, compresa la tirannia dell’ego, per imporre la propria autorità nei confronti di chi è indifeso, è dentro la natura dell’uomo. Primo Levi nel suo ultimo libro,I sommersi e i salvati, in particolare nel capitolo intitolato “La zona grigia”, analizza proprio i meccanismi occulti che possono alimentare questa tendenza. Cita come esemplare la storia dell’ebreo Chaim Rumkowski, un piccolo industriale fallito, che viene nominato presidente di un ghetto. Un personaggio che riflette la natura degli uomini, commenta Levi, ibridi impastati di argilla e di spirito; e come Rumkowski, anche noi siamo abbagliati dal potere e dal prestigio, e dimentichiamo la nostra fragilità essenziale, quella che il poeta Giuseppe Ungaretti, di fronte all’orrore della guerra e alla morte, ha concepito come condizione esistenziale di estrema precarietà, ma definendo l’uomo nella sua essenza creaturale, “docile fibra dell’universo” (I fiumi). Il fondamentale problema dell’essere umano è la grande difficoltà a mettersi nei panni della condizione altrui, e il messaggio evangelico, “ama il tuo prossimo”, o il motto di Publio Terenzio Afro, che afferma la pietas tanto cara a Virgilio, in cui l’uomo non è più un nemico “spietato” o un avversario da ingannare, ma da comprendere e aiutare, per la maggior parte dell’umanità cristiana e non, resta un’utopia, e per riflesso sillogistico, anche per chi fa il mestiere di insegnante, forse perché condizionati da un certo pregiudizio“machiavellico”, che considera nell’uomo, come dominante, solo la natura malvagia e irredimibile (Il principe).