I giovani di Libera e di Rombiolo incontrano il testimone di giustizia Tiberio Bentivoglio

Intensa, toccante, emozionante esperienza durante la presentazione del libro “Colpito. La vera storia di Tiberio Bentivoglio”. L’iniziativa promossa dai Giovani di Libera è stata organizzata dal “Gruppo giovani Giovanni Paolo II” della parrocchia di Rombiolo. Tanta la partecipazione del pubblico che è stato catturato dalla drammatica vicenda raccontata dallo stesso testimone di giustizia Tiberio Bentivoglio.

Anche per i giovani del Gruppo “Giovanni Paolo II” diventa importante costruire un percorso di impegno civile e di responsabilità personale e solidale e portare avanti le istanze di quella parte di società che vuole ribellarsi a tutte le forme di ingiustizia e contro le diverse modalità  scatenate dalle mafie per opprimere e indebolire le istituzioni democratiche e i valori etico-civili. Lo hanno dimostrato accogliendo la proposta dei Giovani di Libera di dedicare un intero pomeriggio alla storia di Tiberio Bentivoglio, testimone di giustizia che ha vissuto un vero calvario da quando ha deciso di denunciare il racket nella sua città, Reggio Calabria. Tantissime le persone che hanno partecipato nell’auditorium  (29 dicembre), grazie alla sensibilizzazione compiuta sia dal “Gruppo Giovani” di Rombiolo  che dal parroco don Raffaele Arena, che ha dato vita a questa importante realtà sul territorio, con 60 tra ragazzi e ragazze iscritti. L’iniziativa inoltre è stata caratterizzata dall’adesione dell’Amministrazione comunale di Rombiolo con la partecipazione del sindaco Giuseppe Navarra, il quale ha spiegato il valore che ha per la comunità vivere momenti di incontro e di consapevolezza sugli effetti del condizionamento delle organizzazioni criminali; per Navarra assume particolare significato il fatto che siano proprio i giovani a responsabilizzarsi e a far conoscere il ruolo di Libera nella lotta contro il radicamento del fenomeno mafioso-‘ndranghetistico e a fianco dei cittadini che si ribellano al tentativo di oppressione.  È stato proprio il testimone di giustizia a raccontare il “calvario” che ha dovuto affrontare, e le sue parole hanno letteralmente catturato l’attenzione del pubblico per circa due ore.  Quando Bentivoglio ha iniziato a raccontare, si ascoltava soltanto il ritmo cadenzato e scandito della sua voce che pronunciavano le parole con una gravezza drammatica. È quella tensione umana, etica, emotiva che si genera quando si compie un atto di coraggio che comporta una dura ed estenuante lotta. Nel suo caso, non solo contro chi vorrebbe piegarti alla prepotenza, ma anche verso l’omertà e la complicità delle istituzioni democratiche e della cosiddetta “società civile”.

Il calvario di Bentivoglio inizia il 18 luglio del ’92. “Sono stato punito per essermi ribellato. Era sabato. il giorno dopo viene ucciso Paolo Borsellino. Quel sabato mattina mi recai in caserma per la prima volta. Per la prima volta ho scritto i nomi delle persone da me sospettate. Mi sentivo forte, come se avessi preso una laurea. Ho piegato quella denuncia in quattro e la conservai nella mia tasca. Si!, uscendo da quella caserma di 24 anni fa, ho detto tra me e me: – Si doveva fare, si doveva fare. Non c’era alternativa. La forza mi era stata data soprattutto da mia moglie, sempre più determinata, più ostinata di me…” Poi l’amaro e sofferto commento:  “Evviva la persona che mi chiese il pizzo per la prima volta. Lo incontro spesso, molto spesso. Immaginate cosa si prova. Non ti abitui mai, mai a sopportare la presenza di chi è libero, di chi col sorriso in bocca continua a fare soprusi. – Ti manderò due ragazzi, mi ha detto il 25 luglio del ‘92, a cui darai un po’ di soldi; poi ci sediamo con calma e ci ragioniamo sopra per quanto devi pagare”. Questo l’esordio con cui Tiberio Bentivoglio ha messo a nudo i suoi sentimenti, il suo dolore, la sua battaglia, i suoi principi e valori, che gli hanno dato il coraggio di ribellarsi.

Questa drammatica storia è stata raccolta in un libro (edito nel luglio del 2016) da Daniela Pellicanò, con una prefazione di don Luigi Ciotti. Il titolo del libro è emblematico “Colpito. La vera storia di Tiberio Bentivoglio” e si apre con un interrogativo che crea sconcerto, ponendo tante altre domande: “dalla ‘ndrangheta o dallo Stato?”.

La lotta che Bentivoglio è costretto a fare, non è stata solo contro la violenza brutale della ‘ndrangheta (di fine febbraio del 2016 l’ultimo atto intimidatorio con l’incendio e la distruzione dei magazzini del suo negozio), ma anche per fronteggiare le complicità di parte della magistratura e la solitudine, degli amici, della comunità; finché non è arrivato l’abbraccio di Libera nel 2005. “Solo don Ciotti mi è stato accanto. Libera è stata una famiglia che ho incontrato 11 anni fa e che non mi ha più abbandonato, al contrario delle altre istituzioni. Solo don Luigi Ciotti ha capito quale fosse l’origine della mia rabbia – ha messo in rilievo Bentivoglio. Lo scrive nella Prefazione: “Un grido di rabbia e di speranza”. Tutti pensavano che io fossi arrabbiato per  la ‘ndrangheta. No! Contro la mafia, contro la ‘ndrangheta non si grida non ci si arrabbia, ma bisogna solo scrivere e denunciare. La nostra rabbia, ancora oggi, dopo 24 anni, è per quella pacca sulla spalla, quel mi piace su facebook, che non serva a niente. Perché nel 2015 stavo per chiudere l’attività per fallimento? Perché un solo scontrino in quella cassa non si batteva, un solo euro non si incassava più. E di chi era la colpa, della ‘ndrangheta? Di chi ha messo la bomba, di chi ha bruciato? No! Esistono due tipi di omertà – osserva con profondo rammarico Bentivoglio – quella legittima, che fanno i parenti, gli amici, i familiari dei mafiosi; ma l’omertà nostra, di persone per bene, l’indifferenza, il dire a me non tocca, il voltarsi dall’altro lato, chi me lo fa fare, tutto questo a noi ci fa male, più delle bombe. Un negozio, che è stato preso di mira dalla ‘ndrangheta, l’indomani, dovrebbe essere una lunga interminabile fila di persone a dire no, siamo qui a dare sostegno. Il mafioso deve capire che più colpisce e più diventa forte l’economia sana; I clienti sono scappati, perché? hanno paura di stare vicini a chi ha denunciato? A chi frequenta quelle aule dei tribunali? È impossibile pensare una cosa del genere.  Ma purtroppo accade e non a me solamente”

La rabbia di Bentivoglio, come viere ribadito anche nel libro, scaturisce dalla mancanza di solidarietà da parte di chi ritenevi amici, dalla solitudine che vive chi cerca di ribellarsi, dal consenso omertoso da parte della cosiddetta “società civile”, dal contesto sociale che alimenta la forza e il potere della ‘ndrangheta. E ha ricordato ancora le parole che don Ciotti non si stanca mai di ripetere: “Siamo sicuramente rappresentanti di una società civile, ma non siamo civili se non diventiamo responsabili”.  In questo suo teso racconto anche lo sconcertante episodio del comportamento del sacerdote della sua parrocchia, che invece di andargli incontro, di confortarlo, gli si è rivoltato contro. Ma il punto più drammatico che Bentivoglio ha rievocato, è stato quando si trovava in campagna. Viene colpito alle spalle in modo vile con arma da fuoco, provocando una ferita alla gamba. In quei frangenti ha sentito la morte addosso.

A condurre la presentazione del libro, oltre a Raffaella Barbuto e Maria Rosa Restuccia (Giovani di Libera) anche Raffaele Ferrazzo e Roberta Marturano ( Gruppo giovani Giovanni Paolo II). È seguito un appassionato dibattito tra il pubblico e Bentivoglio, con diverse domande e significative riflessioni. La presentazione è stata introdotta da don Raffaele Arena, parroco di Rombiolo, che ha avuto il merito di organizzare il Gruppo giovani i quali hanno aperto l’incontro dando vita ad una lettura corale di alcuni passaggi significativi del libro di Bentivoglio.