A Riace il sogno e l’utopia continuano ad essere accolti e vivere come l’unico disegno possibile per il cammino dell’umanità

Una moltitudine di voci, da Nord a Sud, ha testimoniato e ha chiesto in coro che “l’utopia della normalità” del sindaco Mimmo Lucano, possa continuare ad “accogliere” ed  “ospitare” il cammino di una umanità “sconfinata”. Riace consegna al futuro l’eutopia del “buon luogo”, un altro possibile “essere al mondo e per il mondo”.  Tutto questo è successo il 30 dicembre, nel corso del Consiglio comunale aperto.  

Ci sono delle parole che improvvisamente rivelano una nuova luce, come se partorissero un significato mai prima intuito e assumono una forte carica emotiva, maieutica ed evocativa. E in determinati momenti che segnano la storia di un uomo o di una comunità, hanno la capacità di incarnare un sentimento corale, “lo spirito del tempo” come avrebbe spiegato il filosofo romantico  Johann Gottfried Herder,  ripreso poi da Hegel. Questo è accaduto a Riace, durante il Consiglio comunale aperto, indetto dal sindaco Domenico Lucano all’indomani delle sue dimissioni, dopo i vili attacchi anonimi per infangare l’operato che in tutti questi anni lo ha visto protagonista nella costruzione di una nuova visione di cittadinanza futura. Le parole che sono state ribadite come un leitmotiv hanno un’unica etimologia o matrice ideale e politica: sogno, utopia. Ed è successo un miracolo in quella piccola aula che trasudava di persone, di testimoni e testimonianze. Quelle parole, come un’eco che si ripete e che risuona forte in un crescendo, sono diventate un coro polifonico e hanno risuonato con la stessa “materia di cui sono fatti i sogni”, declinandole con accordi e toni diversi ma facendoli riverberare all’unisono.

È sorprendente – sembra paradossale – constatare, al di là delle implicazioni di carattere storico-politico, sociale, antropologico, culturale, che il destino dell’umanità si sia prefigurato attraverso una visione utopica, come l’unica strada che possa dare risposte alle tragedie e ai drammi che vivono milioni di esseri umani e dell’intera umanità. E tutta questa attesa si è coagulata nel piccolo borgo della Locride, in cui convivono la realtà e il sogno, l’ideale e il reale, la visione e la condivisione, il paese e il mondo, grazie al dono dell’accoglienza.

Una moltitudine di persone da Nord a Sud si sono ritrovati a Riace, paese-simbolo nel mondo per il suo progetto di accoglienza. Come l’etimologia della parola Calabria può essere tradotta in “faccio sorgere il bello”, questo nuovo sentimento risorto ha una radice antica, ereditata dalla Magna Grecia: ospitalità,  xenia xenios era un attributo di Zeus come protettore dei viandanti e garante della xenia e dimostra come il concetto di ospitalità fosse profondamente intrecciato nella spiritualità greca). Non resta altro da dire e da fare, se non ripartire da tutto quello che Domenico Lucano, detto  “Mimmo u Curdu”, ha trasmesso dalla sua Riace, come la stella che guida i nuovi Re Magi da Oriente a Occidente. Oltre ogni immaginazione, oltre ogni previsione, oltre ogni orizzonte.

E l’accoglienza è stata preannunciata da una Profezia, dalle profetiche parole dell’omonima poesia (scritta nel 1964) di Pier Paolo Pasolini: “Era nel mondo un figlio / e un giorno andò in Calabria… “). Lo spirito profetico che nasce in questa terra, da Gioacchino da Fiore a Tommaso Campanella, si è impresso ancora una volta, e non è stato ancora vinto nonostante le ferite profonde che la Calabria porta nell’anima e nel corpo per essere stata oltraggiata, profanata, insanguinata, depredata, inquinata. Quella materia invisibile che ha plasmato l’universo e che ha scolpito il pensiero, che possiamo “cogliere” e “accogliere” dentro ogni seme che germoglia, scorre ancora come un fiume sotterraneo ed è emersa nei volti, nelle espressioni, nelle passioni, nei desideri, nei pensieri, nelle tensioni, nelle emozioni, nei sentimenti, che si sono dati appuntamento dentro e fuori le mura dell’aula consiliare. La nuova bellezza che salverà il mondo passa attraverso i visi che abitano le dimore di Riace perché Riace ha nel suo cuore pulsante la nuova linfa vitale che può salvare l’umanità. Non potrà esserci altro destino se non questo cammino, se non questa comunione di “pane e vino” (titolo di una delle liriche più famose di Hölderlin) con la parte di noi che cerca un rifugio, una casa, una capanna, una zolla da dove ricominciare il cammino per una comunità “sconfinata”.

Mimmo Lucano, con la sua chiamata, ha voluto difendere la sacralità del suo tempio e del suo tempo. Nell’era della virtualità, della post verità, a Riace si è vissuta l’esperienza che rifonda una nuova umanità. È stato forte, possente il coro che intonava l’unica fede possibile del “qui ed ora”. E tutto è diventato meravigliosamente reale a Riace, come se inaspettatamente venisse ri-scoperto un mondo quasi estraneo, “l’utopia della normalità” diventata prima un predicato, poi un postulato per il sindaco Mimmo Lucano, attraverso la presenza viva, forte, di una umanità che si vuole riappropriare di se stessa, della propria dimensione sacra. A Riace si è ricreata una storia di uomini “senza confine”, ma  in cui il mondo si riconosce e ri-conosce l’eutopia del “buon luogo” dove si è realizzato un altro possibile “essere al mondo”, con l’epifania della luce umana. Quale altra bellezza da ridefinire e concepire se non nell’insieme, nell’incontro, seme germinante di un’idea-ideale che si forma e si trasforma nella nudità della terra e dello sguardo di un fanciullo che implora la dignità, che chiede la possibilità di poter donare la sua bellezza umana?  Ed è sembrato risentire anche l’eco delle parole di Publio Terenzio Afro,  homo sum humani nihil a me alienum puto, “sono un uomo e non considero estraneo a me niente che sia umano”, o la massima di Ugo di San Vittore, coniata nell’XII secolo: “L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero”.

Un “paese straniero” dove gli esseri umani non sono “estranei”,  ma “xenos”, esuli accolti nella terra declinata come “matria” e patria. In un mondo che partorisce i peggiori crimini, a Riace, nell’ora “che volge al disio” e “ai navicanti  ’ntenerisce il core” da Nord a Sud, tanti uomini e donne viandanti, con la loro nuda esistenza e vera identità, senza nascondersi nell’omertà complice dei social media, nei nuovi labirinti dove si nascondono i tanti minotauri, con tutto il loro carico di vita, di sofferta esperienza, di gioia e di amore che ognuno si porta dentro e dietro, ma con il desiderio di chi ancora sogna e crede nell’Altro e nell’Altrove da incontrare e da scoprire. Così si è ricostituita una Polis che pratica la pietas e che discute e afferma i valori umani, i principi etici e spirituali, gli ideali politici e civili, e con responsabilità e umiltà si impegna per combattere la barbarie, la spietatezza, l’indifferenza, quella concezione del potere che considera gli esseri umani merce, rifiuti, scarti, immondizia da scaricare nelle discariche, senza alcuna pietà.

A Riace è stata partorita la voce profetica che sa pronunciare la parola futuro, che sa spezzare la tenebra della meschinità, dell’ipocrisia, della menzogna, della mediocrità, della pusillanimità, della viltà. Tutti si sono sentiti figli di Riace, con la precarietà migrante della propria condizione esistenziale, come tante gocce diventate un unico fiume umano; e dalla sua corrente effondersi questa proposizione: “Mimmo Lucano ti diamo la nostra mano”, per resistere a quel potere evocato nell’ultima strofe del Don Chisciotte di Francesco Guccini: “Il potere è l’immondizia della storia degli umani/ e, anche se siamo soltanto due romantici rottami/ sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia/  giorno e notte …”, (questi versi si trovano in uno dei murales sparsi lungo i vicoli di Riace.

Nell’anno in cui ricorrono i 500 anni dell’Utopia di Tommaso Moro, come  il mitico risorgere della fenice ogni cinque secoli o i corsi e ricorsi storici di Vico a Riace, il 30 dicembre, alla vigilia del nuovo anno, si è costruito quell’utopico sogno, che viene consegnato al 2017 e al futuro di ogni essere umano e di ogni terra. “Una mappa del mondo che non include Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo paese al quale l’umanità approda di continuo” (Oscar Wilde).

Ma rimangono vive e penetranti, come un sigillo che si imprime con forza sul testamento del sentimento che si è disseminato nell’aula consiliare stracarica di umanità, le parole pronunciate da Mario Congiusta (padre di Giancarlo, vittima innocente della ‘ndrangheta, ucciso il 24 maggio del 2005): vibranti nella loro semplice icasticità, potenti nella loro simbolica folgorazione, profondi e tesi come una corda carica di sofferta emozione perché generate da un pathos. Quest’uomo scavato nel corpo e nell’anima come un tronco millenario di ulivo, ha osservato che in tutti i paesi ci sono dei murales, ma solo a Riace si trovano sette murales dedicati alle vittime innocenti della ‘ndrangheta e della mafia (tra cui l’unico murales dipinto da Nik Spatari, dedicato a Gianluca); e rievocando la tragica fine del figlio, ha ricordato l’incontro avvenuto con un magistrato e il loro colloquio che lo invitava a resistere e lo pregava di prepararsi, “perché scatterà puntuale la macchina del fango sulla tutta la sua famiglia e su Gianluca”; ma poi lo ha esortato “ad avere pazienza, a saper aspettare, perché quando risorge il sole il fango si secca e cade”. Rivolgendosi a Mimmo Lucano, incoraggiandolo a non cedere, Mario Congiusta, rinnova il  valore emblematico di quelle parole: “Domani risorge il sole e il fango si secca e cade”.