Limbadi, nel territorio feudo della cosca dei Mancuso, i giovani di Libera hanno affrontato il fenomeno della ‘ndrangheta

I giovani di Libera hanno affrontato il fenomeno della ‘ndrangheta con la proiezione del film “Lea” di Marco Tullio Giordana. L’importante iniziativa culturale è stata organizzata per portare avanti i temi legati al contrasto alla criminalità organizzata, e rientra nell’ambito del cineforum “On the road”, pellicole scomode contro le mafie. Il sindaco dell’Amministrazione comunale di Limbadi Pino Morello, propone la cittadinanza onoraria a don Luigi Ciotti.

LIBERA LImbadi L’associazione “Libera” fondata da don Luigi Ciotti, per la prima volta è stata ospite a Limbadi. Un’occasione per la comunità di interrogarsi sul fenomeno della criminalità mafiosa e sul ruolo dello Stato. A far scaturire il dibattito il cineforum “On The Road”, pellicole scomode contro le mafie con il film “Lea” di Marco Tullio Giordana (che racconta la terribile storia di Lea Garofalo). Al confronto ha partecipato Mimmo Nasone, componente della segreteria nazionale. Importante e significativa è stata la partecipazione di tanti giovani, oltre che di numerosi cittadini, che hanno animato l’incontro a viso aperto. E sono stati senz’altro i giovani di Libera Vibo i protagonisti. Sono loro che, con grande determinazione, portano nelle diverse località della provincia l’esperienza del cineforum itinerante; e lo fanno con responsabilità e impegno, per far emergere una analisi sociale e antropologica sul fenomeno della criminalità organizzata e delle mafie che hanno infettato – e continuano a farlo – le istituzioni democratiche e le coscienze. Un intreccio perverso che ha segnato l’alterno destino delle nuove generazioni, tra chi rimane sedotto o intrappolato nella rete criminale e chi, invece, è costretto a lasciare la Calabria. E’ importante rilevare come questo progetto di pellicole scomode contro le mafie, che ha scavato nella parte più oscura di questa terra, ha significato una svolta nel panorama culturale, politico e sociale del territorio, in quanto ha innescato una riflessione sul perché, dentro le nostre comunità, si riproduce il linguaggio di violenza, di oppressione e di morte caratteristico della ‘ndrangheta. Il progetto iniziato a Vibo, con cinque appuntamenti (da novembre a marzo al Polo culturale di Santa Chiara), ha immediatamente suscitato l’attenzione e l’interesse di molti cittadini. Sull’onda della partecipazione il cineforum ha proseguito il suo messaggio sul territorio provinciale (le precedenti tappe sono state Pizzo e Briatico). Come ormai è risaputo, Limbadi è la località dove nasce la storia dei Mancuso, clan la cui azione criminale e capacità di radicamento sul territorio nazionale, secondo quanto emerge dalla ricostruzione degli organi inquirenti, è sempre più diffusa e profonda. La presenza di Libera a Limbadi ha aperto una finestra che non deve passare inosservata, perché l’iniziativa parte dai cittadini impegnati in questa battaglia di denuncia e di sensibilizzazione per far affermare i valori etici e civili e i principi democratici sanciti della Costituzione. A introdurre e presentare l’iniziativa (che si è svolta nella sala conferenze del Palazzo municipale, nel pomeriggio di sabato 11) Raffaella Barbuto ed Emanuela Colla, che si sono soffermate sul valore del cineforum per diffondere i temi dell’antimafia in particolare tra i giovani, in quanto “il linguaggio cinematografico è uno strumento ideale per affrontate le questioni attraverso il confronto e il dibattito” ha spiegato la Barbuto; mentre a sua volta Emanuela Colla ha illustrato i contenuti del film sottolineando il ruolo della donna nelle famiglie mafiose come Lea Garofalo”; poi ha rilevato che “la donna svolge un ruolo fondamentale nelle famiglie di ‘ndrangheta, addirittura nel narcotraffico”, ma anche e soprattutto nell’ambito dell’educazione, fondamentale nel perpetuarsi di determinati modelli criminali. Anche per questo Libera ha sostenuto una iniziativa importante nel reggino, per far togliere i figli ai mafiosi. Su questo punto si è soffermata la Barbuto ricordando la vicenda di Tita Buccafusca, la moglie di un componente della famiglia dei Mancuso (Pantaleone Mancuso, detto “scarpuni”) che non voleva un destino dei propri figli nella mafia, ma è morta nel 2011 dopo aver ingerito dell’acido muriatico. “Lei voleva dare un futuro diverso per i propri figli”: poi la Barbuto ha citato le parole inquietanti riportate da Lirio Abbate sulla vicenda della Buccafusca nel libro “Fimmini ribelli”: “Quello di uccidersi con l’acido volontariamente o indotti da pressioni psicologiche o con la forza, è un gesto di chiara valenza simbolica. L’acido brucia la colpa, e chiude per sempre la bocca a chi ha osato rivelare i segreti e tradire. È così che si soffocano le ribellioni dove regna la ‘ndrangheta. Ma a questo destino si sottraggono sempre più donne, che con il loro coraggio potrebbero cominciare a minare la solidità del sistema e delle leggi che lo tengono in piedi. Leggi scritte da uomini a vantaggio degli uomini” (pag. 176). Il cineforum itinerante, iniziato Pizzo, (con la proiezione sempre di “Lea”), ha proseguito lungo la costa a Briatico, con la proiezione del documentario “Il sangue Verde”del regista Andrea Segre. Nei locali dell’Anap il dibattito si è concentrato sui temi dell’immigrazione, dell’accoglienza e del caporalato. Girato tra Rosarno, Caserta e Roma, “Il sangue verde” ha proposto un resoconto degli eventi e degli atti di violenza avvenuti a Rosarno nel gennaio 2010. Ospite è stato il sociologo Carlo Colloca dell’Università degli Studi di Catania e consulente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sui sistemi d’accoglienza dei migranti. Lo studioso ha denunciato come questo fenomeno sia il risultato di uno sfruttamento da parte delle multinazionali e che in contesti come la Libia il Ciad o la Nigeria, ci siano dei veri campi di concentramento per bloccare le migrazioni. Poi Colloca ha spiegato che in Africa ci sono gruppi occidentali a gestire l’acqua e i semi. Perciò siamo di fronte ad un neocolonialismo anche da parte cinese e che le prossime guerre saranno per il controllo dell’acqua. Molti di questi profughi cadono nei buchi neri come quello di Rosarno, ha inoltre sottolineato il sociologo, e i 25 euro che guadagnano poi si riducono a 5 euro a fine giornata, per tutti una serie di “pizzi” che devono pagare. Questo ci fa capire, ha aggiunto ancora Colloca, come la gestione di migranti sia un filone d’oro attraverso un sistema illegale, in quanto in Italia non si governa il fenomeno, ma si legifera sull’emergenza, quindi saltando una gestione razionale del problema da parte delle istituzioni, favorendo così l’infiltrazione della criminalità con la creazione delle clientele. La rivolta di Rosarno, ha inoltre aggiunto, “è una cartina tornasole che ci dice come viene costruita ad arte, dalla criminalità, la percezione negativa dello straniero”. E le dichiarazioni di allora da parte sia del presidente del consiglio Silvio Berlusconi che del ministro dell’Interno Roberto Maroni ne sono una eloquente testimonianza, attribuendo la responsabilità di quello che era accaduto agli immigrati: “Vanno bene quando sono braccia, meno quando richiedono diritti”, ha osservato infine Colloca. Alla luce del recente episodio della morte accidentale di un immigrato nell’accampamento di San Ferdinando, dopo l’intervento dei carabinieri per sedare una lite (7 giugno), dimostra che la situazione è rimasta identica se non addirittura peggiorata, rispetto al 2010, in quanto i migranti vivono in condizioni di disumanità. Il film del regista Marco Tullio Giordana dedicato a Lea Garofalo, oltre a dare voce alla ribellione contro i codici della ‘ndrangheta che considerano la donna soltanto un oggetto che si deve assoggettare senza avere alcuna libertà, ha fatto emergere il ruolo di Libera e del suo fondatore, don Luigi Ciotti. L’opera infatti racconta la strenua lotta della donna calabrese che, per salvaguardare la giovane figlia Denise, nel 2002 decise di denunciare il proprio compagno nonché padre di Denise Carlo Cosco, il quale praticava spaccio ed usura a Milano per conto della ‘ndrangheta. Una storia realmente accaduta che progressivamente assume sempre più i contorni di una vera e propria tragedia shakespeariana, terminata con la condanna di Cosco per il brutale omicidio di Lea a seguito di un processo in cui ebbe un ruolo fondamentale la volontà di giustizia di Denise, determinata a non lasciare impunita la morte della madre. Un film civile, agile e intenso che racconta in maniera essenziale la tragica storia vera di Lea Garofalo e della figlia Denise. In questo film, Giordana, a differenza della pellicola da lui filmata “I cento passi” del 2000 che portava sullo schermo la vita di Peppino Impastato, tratta una vicenda tutta al femminile di coraggio, tenacia e ribellione contro un’organizzazione mafiosa. Lea infatti propone un’affascinante e netta contrapposizione tra la sfera del femminile e quella del maschile: in Lea “il femminile è legato alla maternità, alla capacità affettiva e alla forza di ribellarsi alle logiche della ‘ndrangheta e vince su un maschile violento e segnato dalla morte”. Nell’intenso confronto-dibattito che si è aperto con Mimmo Nasone, diversi i temi affrontati, in primo luogo la storia di Lea, in cui emerge la natura malvagia e mostruosa che si manifesta nelle organizzazioni criminali come dimostra il compagno di Lea e padre della figlia, che dopo averla uccisa, l’ha fatta a pezzi e poi bruciata con la partecipazione di altri affiliati. La riflessione poi si è concentrata sulle responsabilità di apparati dello Stato nell’azione di contrasto al fenomeno della criminalità e l’intreccio perverso tra rappresentanti delle istituzioni e ambienti criminali, come denunciato recentemente dal procuratore di Reggio Federico Cafiero de Raho (19 maggio). Mimmo Nasone nei suoi interventi ha sottolineato in particolare che molte sono le donne che hanno vissuto lo stesso destino di Lea, che doveva essere uccisa dal fratello Floriano, ed è per questo che prima viene ucciso il fratello e poi Lea. Identica sorte è toccata ad Angela Costantino, che a 14 anni si sposa Pietro Lo Giudice e a 20 anni è già madre di 4 figli. Dopo che il marito viene incarcerato le capita di innamorarsi di un altro e rimane incinta. Poi decide di abortire per nascondere questa relazione, ma i parenti la scoprono e da allora sia lei che il presunto amante scompaiono e per dieci anni fanno credere che si sia suicidata. Dopo dieci anni però il fratello di Lo Giudice si pente e rivela l’orrendo delitto. “Quando una donna tradisce il marito deve essere uccisa. Non ci sono più sentimenti, né legami familiari, ma a prevalere è il codice di morte della ‘ndrangheta”; per questo motivo, ha spiegato Nasone, “è nostro dovere far conoscere le storie che la ‘ndrangeta vuole nascondere. Ma a che servono queste storie?” si è chiesto il componente della segreteria nazionale di Libera, “servono a scuotere le nostre coscienze perché la criminalità vuole nascondere, oscurare i sentimenti e la verità”. Poi ha rammentato che alla base del potere mafioso ci sono i soldi e il consenso sociale a causa dell’arretramento dello Stato. Ha ricordato in merito l’istituto dei beni confiscati che è stato voluto proprio da Libera come strumento per colpire al cuore le organizzazioni criminali, ma anche tutta la retorica che purtroppo circonda l’antimafia. Per tutti questi motivi ha posto l’accento sull’importanza della cultura e sul ruolo dell’educazione e della formazione delle coscienze, un lavoro fondamentale come quello che sta facendo, con questa esperienza dei giovani di Libera attraverso, il cineforum e i campi estivi che vengono organizzati con tanti giovani provenienti da tutta Italia. Nasone poi ha rammentato l’importante provvedimento del tribunale di Reggio nel sottrarre 30 bambini alla patria potestà delle famiglie ‘ndranghetiste. Creare coscienza, far conoscere la verità e la realtà, investire sulla scuola per diffondere una cultura che promuova valori e modelli che possano accendere le coscienze dei giovani, soprattutto di quel mondo che subisce il condizionamento mafioso. In questo impegno culturale Nasone ha inoltre ricordato il valore di don Italo Calabrò, suo primo maestro di vita e che ha preparato l’altro importante incontro nel suo cammino, con don Luigi Ciotti al Gruppo Abele di Torino. Nasone ha spiegato che l’esperienza di Libera nasce proprio in quel periodo, quando don Luigi Ciotti viene a conoscenza del fenomeno mafioso. Tra gli interventi durante il dibattito, si sottolinea quello di Nicola Conocchiella il quale ha messo in luce l’ambiguo ruolo di alcuni rappresentanti dello Stato e della magistratura che se da una parte invitano i cittadini a denunciare poi, invece di dar corso all’affermazione della giustizia, creano sfiducia, venendo meno al proprio ruolo di tutori della legalità. Anche il sindaco Morello ha ripreso la parola, e ha ribadito la volontà della sua Amministrazione di dare la cittadinanza onoraria a don Ciotti e di stringere un rapporto istituzionale con Libera, mettendo in rilievo che “la cultura è l’unica merce che paga: ecco per quale motivo io guardo con fiducia a don Ciotti che sta coinvolgendo tanti giovani”; e invita Libera a ritornare a Limbadi. Poi ha messo in rilievo l’impegno per la comunità da parte della sua Amministrazione. Infine ha rivendicato il clima di serenità che si vive a Limbadi da quando c’è la sua amministrazione, dove “non ci sono nemici ma avversari”. E a tal proposito ha fatto sapere che il Comune ha ottenuto il servizio civile, grazie all’impegno dell’assessore alle Politiche sociali Rosanna Solano che con grande responsabilità, sottraendo del tempo alla propria famiglia, sta lavorando per il bene della comunità, ottenendo un importante risultato. La stessa Solano ha spiegato che il Comune, a regime, avrà a disposizione otto ragazzi per il servizio civile. Interessante l’intervento dal pubblico di un giovane che vive a Limbadi, Giuseppe Rizzo, il quale richiamandosi a Lea Garofalo che rinnega i suoi legami familiari per rivendicare la sua dignità di donna e di essere umano, ha messo in rilievo che anche all’interno delle famiglie mafiose ci sono componenti che soffrono, che vorrebbero ribellarsi, ma non ce la fanno, perché sono lasciati al loro destino. “C’è gente che soffre, che scompare, che viene uccisa, che viene additata dalla società stessa. La nostra comunità, il nostro paese, è vittima della mafia” ha aggiunto. “Non è una sola persona che può essere vittima, ma anche una cittadina, una comunità è vittima e può morire. Noi siamo vittime del fare mafioso. Sono tanti gli atteggiamento mafiosi – ha inoltre spiegato il giovane – in particolare ad inquietare è il clima che si crea che bisogna condannare, attorno ad una persona e ad una comunità”. In merito ha spiegato che “è facile essere antimafiosi qui, ma immaginate la figlia di Lea Garofalo, Denise, e come lei tante altre, che cosa avrà vissuto e vivrà un domani quando decide di crearsi una famiglia? Viene additata come una esponente di quella famiglia, di quel clan, resta marchiata. Ma lei si è ribellata. Lea è stata uccisa per amore della sua libertà e della figlia” ha infine sottolineato Giuseppe Rizzo. Nel corso del dibattito anche la riflessione di Giusy Staropoli, che ha messo in rilievo la grande solitudine di Lea che emerge dal film. “Lea fa vedere che il programma di protezione non funziona; ma trova il coraggio di andare avanti per amore della figlia; ma quello che viene fuori e che ci deve far riflettere, è che Lea viene lasciata da sola dallo Stato”. Infine hanno fatto eco le parole di Salvatore Rizzo, che ha promosso l’iniziativa, insieme ai giovani di Libera: “La cosa più bella è vedere tanti giovani sia del territorio che di Limbadi; la comunità finalmente si ritrova” ha esordito. Poi ha messo in rilievo alcuni aspetti del film: “Lea per amore perde la vita, però non si arrende, come non si arrende Denise. Ma Lea vive con noi anche per merito della magistratura e del ruolo delle istituzioni. Anche se ci sono dei problemi, dobbiamo avere fiducia nella magistratura e nelle forze dell’ordine.” Rizzo poi si sofferma sull’importanza della cultura: “La scelta nasce da un nuovo modo di pensare. Diceva Mimmo Nasone che noi abbiamo due strade, l’autostrada e il viottolo. E’ facile prendere l’autostrada, ci sono i soldi, il potere, il rispetto; ma io preferisco il rispetto di don Ciotti, il rispetto di don Lorenzo Milani. Io voglio la cultura della verità”. Rizzo, con alle spalle tanti anni di insegnamento (docente di Filosofia e Storia) e di impegno nel campo della formazione culturale delle coscienze e dei valori etici e civili, sia nella scuola che in Libera (ottenendo il premio “Antonino Caponnetto” per la cultura della Legalità) ha affermato che “la cosa più brutta che sta succedendo oggi in Italia è che non esiste la verità: è tutta una menzogna, una finzione. Soldi facili, la corruzione dilaga e noi siamo come addormentati, viviamo anestetizzati nel conformismo e ci adattiamo. Dico ai miei alunni: Guardate, ragazzi, lo diceva Gramsci nei suoi Quaderni, “Odio gli indifferenti”, e non c’è espressione più bella. Ricordatevi che dovete essere sempre della verità. Scegliete il viottolo ma vivrete liberi, finalmente liberi e essendo liberi bisogna ridare fiducia alle istituzioni, alla legge, che è uno strumento.” Rizzo ha spiegato che il suo impegno, la sua lotta non è rivolta alla legalità a tutti i costi in quanto “la legge è un compromesso, che si può cambiare in qualsiasi momento. Durante il fascismo le leggi razziali erano legali”. Per questo “bisogna cambiare mentalità e pensare alla giustizia. Ma come si arriva alla giustizia?” si chiede. “Me lo domando spesso, lo penso spesso”; e ha spiegato: “Secondo me bisogna parlare di formazione, di educazione, di scelte nel nostro comportamento quotidiano”. Poi ha messo in luce lo stato di abbandono in cui si trova la Calabria, come la magistratura e le forze dell’ordine che sono sottodimensionate, e la questione della salute: “Ma perché non parlare dei nostri ospedali? Ma perché non essere qui a combattere per la nostra salute? Ma perché mandare nei nostri ospedali ci sono persone che non hanno nessun titolo e noi dobbiamo fare i viaggi della speranza?”. Dopo queste premesse ha concluso con un enunciato: “Credetemi, questa è la mia lotta per la giustizia e per la legalità”. Alla fine del dibattito è intervenuto Giuseppe Borrello (componente della segreteria regionale di Libera che insieme ai ragazzi di Libera ha organizzato il cineforum) il quale ha ringraziato in primis i Carabinieri per la loro presenza, poi si è fatto latore di un messaggio di saluto da parte di mons. Giuseppe Fiorillo (coordinatore provinciale di Libera), poi ha sottolineato il valore dell’impegno in Libera da parte dei giovani e il significato del cineforum.

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