Ritorno da un altrove sperduto

writers_roma_1 Ritorno da un altrove sperduto   Di Vincenzo Calafiore 14 maggio 2016-Udine   Per alcuni lampioni spenti, la luce sulla strada che porta a una stazione perduta in mezzo ai campi, ingrandisce le ombre degli alberi, c’è silenzio e timore dell’ignoto. Sul piccolo piazzale in terra battuta segnato dalle ruote di carri si sente ancora il caldo torrido del giorno, tacciono le cicale e i grilli che avevo sentito nel mio viaggiare a piedi, dopo aver attraversato altre valli ormai alle spalle, tante lucciole, stelle a mezz’aria! La stazione e buia, a vederla sembra che non abbia mai visto un treno passare, l’erba alta svetta tra i binari, mi siedo sulla panchina di legno arso e storto, segnato da lunghi solchi che a guardarli sembrano rughe di un viso centenario. Un filo di fumo dai binari attira la mia attenzione, è un mozzicone di sigaretta che brucia, ma ci sono solo io! Sono inquieto, e penso magari di aver perso un treno che aspettavo di prendere da tanto tempo oppure oltre me in questa stazione perduta, ci deve essere qualcun altro. Ho paura. Il suo colore è un blu profondo come le ossessioni e le inquietudini. E’ un blu senza sfumature riflessi o imperfezioni, è la paura! Una sorta di misteriosa indesiderata preveggenza che costringe a uscire dalla mia volontaria prigionia per cercare il blu perfetto nella condizione di un amore verso una lei che da qualche parte in un’altra stazione perduta prenderà lo stesso treno che io attendo di prendere adesso. L’amore, una sorte di archetipo dell’uomo alla ricerca perenne di qualcosa il più possibile rassomigliante all’amore e sentirsi escluso se non lo trova, da tutto perché è blu come la paura, come per qualsiasi altra diversità, come la fede, la razza, la condizione sessuale. Io ho vissuto un’infanzia emarginata perché la mia famiglia veniva messa da parte perché povera; e allora crescere è stata dura, la mia infanzia come un’esperienza diretta, ripensata, ricostruita e rivista in altra maniera. Ero un animale nella giungla, una giungla di miseria e di degrado, è come tutti, in quei tempi, vittima e carnefice, cacciatori e prede ….. Mi ha insegnato che non c’è mai il bene senza il male, la beltà senza la bruttezza, che c’è una vita e non una vicevita. Il pensiero in me altro non è che un cumulo di parole che s’infrangono e si ricreano in ogni sguardo, in ogni mano tesa, in quel smarrito senso di sconfitta che sta in me, con un transito osceno dei dettagli che d’improvviso corrono verso il pietroso soccorso di Dio che da qualche parte lassù a volte di contro a volte benevole, arriva. E’ come se si apre di un angolo di cielo, la speranza che sarà primavera oltre ogni inverno, le blandizie di un sogno che a volte si materializza appena in un’immagine sfuggente di donna, amarla poi per sempre senza indugi, come un’euforica illusione embrionale. Mi sono visto uomo in mezzo a uomini fantasmi di se stessi, avvolti da cumuli di stracci, come sudari irrispettosi. Ecco perché mi sono messo in viaggio per sfuggire a un’immonda verità delle rovine … le cose dell’uomo! Si raccoglie in un dettato poroso, crivellato di pensieri ossessivi, urlati nelle notti bianche … poi subito raccolti da una dolente voce di preghiera; sono passati così gli anni come minuscoli accadimenti come dentro un film e volti opachi, sfigurati, anonimi, indecisi in una scansione che sembra, nominandoli, pure volerli cancellare. Dei passi fanno rumore nella notte che si amplifica, rimango seduto nel cono di luce dell’unico lampione acceso, sento il rumore di passi; poi una voce dal buio: <<  … come mai hai tardato tanto ad arrivare…. Stavo per andare via, anche senza te! Esci dalla tua vittoria di luce, una luce infine che ti precipita in un mare senza mare>>! Non c’era nessuno. Nella mia mente la paura era dello stesso colore blu come la coloravo sui quaderni di scuola, ogni pensiero è sovraesposto come se fosse l’incipit di un apologo o la spia di un racconto sottotraccia, unico: la vita. Come un rastrellare incubi e insulti dei giorni, per farne una fuga verso visioni limpide, di lei che mi raccoglie sempre da terra: ecco perché l’amo.