Vibo Valentia, Cineforum giovani di Libera, La siciliana ribelle, domani alle ore 16

Il Cineforum organizzato dai giovani di Libera al suo quinto e ultimo incontro. Domani al Polo culturale di Santa Chiara, con inizio alle ore16 “La siciliana ribelle”. Il film è  liberamente ispirato alla vicenda di Rita Atria, la testimone di giustizia italiana che si uccise una settimana dopo la strage di Via D’Amelio. Dopo la proiezione del film, vi sarà ampio spazio al confronto con Deborah Cartisano figlia di Adolfo, detto Lollò, sequestrato ed ucciso dalla ‘ndrangheta.

Domani il cineforum di pellicole scomode contro le mafie, organizzato dai giovani vibonesi di Libera (in collaborazione con il Sistema bibliotecario Vibonese) si concluderà con la proiezione de “La siciliana ribelle”, al Polo culturale di Santa Chiara, con inizio alle ore 16. Il film è  liberamente ispirato alla vicenda di Rita Atria, la testimone di giustizia italiana che si uccise una settimana dopo la strage di Via D’Amelio. Alla fine della proiezione del film, ci sarà un confronto con Deborah Cartisano, figlia di Adolfo, detto Lollò, il fotografo di Bovalino sequestrato ed ucciso dalla ‘ndrangheta (il 22 luglio 1993). Nel precedente incontro che si è svolto il 20 febbraio, protagonista è stata una particolare realtà della Calabria, quella delle “anime nere”, osservata in primo piano, nelle dinamiche psicologiche e antropologiche, dallo scrittore Gioacchino Criaco, prima con il suo libro, e poi con l’omonimo film. Come ha spiegato lo stesso scrittore che è cresciuto nell’ambiente dove si muovono i personaggi del suo romanzo, è stata tentata una operazione di carattere sia antropologica che culturale: quella di desacralizzare la vita di chi vive la condizione di ‘ndranghetista, per rovesciare l’immaginario collettivo che si è costruito intorno agli appartenenti alla famiglie ‘ndranghetiste. Di grande importanza la sua dichiarazione che ha espresso nel corso del dibattito, in cui afferma che il cambiamento “è avvenuto quando ho varcato la porta della biblioteca dove ho trascorso la mia infanzia e adolescenza”. Ma i temi e le riflessioni che sono emersi sono state di estremo interesse e importanza, perché alla base vi è un rovesciamento dello sguardo, un modo diverso di osservare il fenomeno della ‘ndrangheta, rispetto alle “narrazioni” simboliche e mediatiche che vengono costruite per manipolare e ingannare.

I giovani vibonesi di Libera, con questa importante rassegna, hanno smosso le acque paludose in cui è immerso il territorio del Vibonese ormai da decenni sulla “questione delle questioni”, che non riguarda soltanto il fenomeno criminale in sé: la presenza oppressiva della ‘ndrangheta prima dei corpi uccide l’idea del futuro, la sua stessa possibilità di essere pensato, disseminando nel terreno e nel corpo sociale veleni e scorie radioattive, inquinando le radici culturali, morali ed etiche delle comunità e contaminando le coscienze; di riflesso lo Stato e i suoi rappresentanti, deputati alla lotta contro ogni forma di criminalità e per l’affermazione e il rispetto dei fondamentali principi e valori presenti nella Costituzione, o non hanno dato alcuna risposta o se c’è stata, i risultati ancora non si sono visti, sempre se, come ci raccontano gli organi di stampa e le autorità che indagano il fenomeno, la ‘ndrangheta è diventata più potente e più capace di insinuarsi nei gangli delle istituzioni di tutta Italia. La riflessione che sorge spontanea è semplice: la logica ci spiega che alcuni “poteri” dentro il dna delle istituzioni, hanno favorito la proliferazione di cellule tumorali per far ammalare il corpo dello Stato e della società, creando così l’humus ideale per far attecchire il cancro delle mafie.

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Senza ombra di dubbio si può affermare che il cineforum con le pellicole scomode contro le mafie e il dibattito con gli ospiti, condotto brillantemente dagli studenti che si sono alternati, a cui hanno partecipato anche i numerosissimi presenti, sia stato l’evento socioculturale più importante negli ultimi tempi sul territorio del Vibonese. Questo tipo di proposta non ha precedenti, ma soprattutto è stata la risposta dei cittadini che testimonia il desiderio di non rassegnarsi e ribellarsi alla decadenza e alle mafie. Questi ragazzi, con il loro impegno, con la passione e la responsabilità che hanno dimostrato, rappresentano la nuova coscienza etica e critica al servizio di quei cittadini che sentono l’istanza di riscattarsi da una condizione di opprimente silenzio e omertà. In altre parole sono riusciti a scuotere le acque e a catalizzare l’attenzione. Ad ogni appuntamento la partecipazione è stata sempre intensa, non solo sotto il profilo numerico, ma soprattutto emotivo, culturale ed etico.

Quello della presenza delle mafie nelle comunità e nelle istituzioni, è il nodo fondamentale dei nostri territori. Un buco nero che produce il degrado, la corruzione, le azioni criminose, l’inquinamento nelle sue diverse declinazioni, causato dalla presenza di poteri oscuri, grigi e anche bianchi, che agiscono per creare disagio, per seminare sentimenti di paura, per inquinare i territori, per diffondere malattie e corruzione: creare cioè un terreno fertile dove possa proliferare la malapianta della criminalità e della connivenza, perché le loro anime sono diventate nere e quindi devono, come i vampiri, iniettare il loro veleno nel sangue della società, infettare anche le radici delle piante e contaminare l’aria che si respira.

Ma anche i virgulti della malapianta sono stati coltivati per diventare “anime nere”: se un bambino nasce in una famiglia ‘ndranghetista ha un’altissima probabilità di diventare un criminale. La radice di questo male quindi è da ricercare, altre che a matrici di ambiente familiare, anche nelle condizioni storico-sociali in cui è condannato a vivere un bambino e un giovane. E qui emergono le enorme responsabilità della classe politica e dei modelli mediatici che vengono costruiti da chi ha in mano il potere per agire in profondità, a livello inconscio, per manipolare le coscienze e indirizzare i comportamenti, i desideri, influenzare il modo di pensare e di guardare alla realtà. In un modello che inneggia al successo a tutti i costi, all’egoismo disumano, ai beni materiali, alla competizione sfrenata e spregiudicata per affermare la propria supremazia, l’ideologia edonistica e consumistica che sta alla base dell’attuale sistema economico e sociale, non hanno fatto altro che preparare il terreno.

Dietro i delitti e le azioni criminose della ‘ndrangheta vi è il danaro, e si usa la violenza in tutte le sue forme come linguaggio per per ottenere consenso. Lo ha spiegato anche il Comandante provinciale dell’Arma dei Carabinieri, colonnello Daniele Scardecchia Scardecchia, nel precedente incontro quando è intervenuta Simona dalla Chiesa (20 gennaio), negli anni ’90 in un summit di mafia e ‘ndrangheta, nel Vibonese, alla richiesta da parte dei mafiosi siciliani di compiere stragi e uccidere coloro che si opponevano al loro progetto criminale, gli esponenti della ‘ndrangheta hanno risposto che loro non hanno bisogno di mettere bombe, perché con il denaro possono sia comprarsi pezzi dello stato che delegittimare coloro che sono recalcitranti. Il potere del denaro diventa per loro la divinità assoluta da adorare che li spinge alla guerra santa, con atti terroristici e criminali o con un atti più persuasivi, occulti e manifesti. Ma questa ideologia è proprio il modello capitalista che l’ha iniettata nelle coscienze di tutto il pianeta a partire dalla seconda rivoluzione industriale, e in Italia specialmente da quando, per citare Pier Paolo Pasolini, è avvenuta la cosiddetta “mutazione antropologica” e il “genocidio culturale” con la scomparsa delle lucciole e la distruzione della civiltà contadina, vale a dire dagli anni ‘60.

Importante e illuminante è stato il dibattito. In primo piano l’intervista dei giovani studenti di Libera Francesco Milano e Emanuela Colla, all’autore di Anime nere, in merito al film. Criaco ha spiegato che il regista Francesco Munzi è stato in Calabria prima di girare il film per 3 anni e un anno per scrivere la sceneggiatura. Non si tratta quindi di una prospettiva estranea quella proposta nel film, ma si ritrova, anche se c’è una differenza con i fatti raccontati nel romanzo. “Abbiamo scelto di restringere il campo – ha aggiunto Criaco – perché nel romanzo la storia si svolge dagli anni ‘60 ai ‘90. Tutto è stato chiuso in un contesto familiare. Abbiamo ristretto il campo fino ad andare oltre le vicende esterne per scavare dentro le contraddizioni degli individui”.

Per quanto riguarda invece le vicende relative alla produzione del film, Criaco ha riferito che è stato lui ad insistere affinché le scene venissero girate ad Africo, perché la produzione aveva avanzato una serie di riserve. Vi erano delle paure e racconta che quando Munzi è andato a vedere i posti e si sono recati a San Luca, ogni mezzora da Roma chiamavano per accertarsi delle loro condizioni; invece, ha sottolineato lo scrittore, “noi giravamo tranquilli a piedi. Volevo che capissero che questo film si poteva girare tranquillamente in Calabria e in particolare in Aspromonte, perché sono i posti che dovevano trasmettere la carica emotiva. In più c’era un desiderio mio di dimostrare alla produzione che le missioni impossibili non esistono e quindi anche con l’aiuto del regista, siamo andati contro la volontà della produzione, considerando che il nostro non era un posto normale”. Ma l’aspetto antropologico interessante che è venuto fuori nel corso delle riprese, ha riferito ancora Criaco, che ai quattro sceneggiatori se ne è aggiunto un quinto, la partecipazione corale della gente del posto: “tutta la gente ha partecipato al film con una scrittura collettiva”.

Un’altra domanda posta dai giovani interlocutori è stata quella del rapporto con le sue vicende biografiche nella storia raccontata. Lo scrittore ha risposto che la sua storia è presente in modo totale. “Essere nato e cresciuto ad Africo, in Aspromonte – ha sottolineato Criaco – ha avuto un ruolo fondamentale” e senza nascondersi in modo perentorio ha affermato che “quella gente cattiva è la mia gente. Non amo quei fatti ma li spiego. Il servizio migliore che avrei potuto fare era quello di deostruire il mito, altrimenti non si esce dalla letteratura del mostro: onnipotente, straricco, circondato da donne. Volevo mostrare la realtà”. Quello che viene fuori, ha osservato ancora Criaco, è che “ci sono dei principi ipocriti, un sentimento egoistico, perché il loro principale obiettivo sono i soldi per i soldi”. In quel mondo – ha aggiunto – non c’è fascino. Questo andava raccontato ai ragazzi”. Le risposte dello scrittore hanno il taglio di un bisturi: sono nette, ferme, fortemente segnato da una conoscenza antropologica e sociale del fenomeno e dei comportamenti che agiscono in profondità, nell’anima “nera” della sua gente.

Sull’altro versante del potere pervasivo della ‘ndrangheta che ormai ha messo radici al Nord, Criaco ha commentato che il mondo criminale è in continua evoluzione. Il tipo di ‘ndrangheta di una volta non esiste più, ha spiegato. “Si è evoluto, hanno saputo omologarsi e insegue la domanda di mafia. Hanno bisogno di droga, che significa un’immensa somma di denaro; offrono dei servigi ad una parte della società ed entra nei normali circuiti bancari. La mafia calabrese comunque ha bisogno di mantenere un principio anche se ipocrita, un legame con il territorio di origine, altrimenti il loro meccanismo non funziona”.

Dopo queste considerazioni l’attenzione viene rivolta al ruolo della donna e lo scrittore di Africo dichiara che in precedenza era in difficoltà nel trovare una risposta chiara. “In realtà – ha raccontato – io le ho mostrate cattivissime, come il personaggio della madre. E’ lei che vuole la vendetta. Tutte le donne lavorano alla vendetta”. Ma in relazione al ruolo della donna, Criaco ha fatto sapere che nell’ultima sua opera, “Il saltozoppo”, vi è una evoluzione, una trasformazione, dall’odio all’amore: “la donna che mi porta nella prospettiva dell’amore si chiama Agnese”.

Altro tema dibattuto, i rapporti con i sindaci della Locride, i quali si sono lamentati per l’immagine negativa del territorio. Criaco ha risposto che non sente fastidio: “Racconto ciò che è la realtà, che non sia narcisistica ma che sia utile a quei ragazzi che continuo a frequentare. E nei loro comportamenti – ha osservato – sono rimasti uguali a 50 anni fa, come se la storia si fosse fermata, dominati dalla prospettiva brutale. I nostri ragazzi sono troppo vicini al grilletto. Domina l’icona della morte nel loro immaginario”. Un descrizione che non lascia scampo ad un giudizio fortemente negativo sui modelli di riferimento. E in merito ad una intervista che è stata fatta ai sindaci ha riferito che molti “hanno risposto che il film mostra una parte della Calabria”. Criaco così ha commentato: “Io sono per la sostanza e non per l’apparenza. Io voglio la salute e non la parvenza della salute. Di quei milioni di turisti che si possono spaventare quanti in realtà si potrebbero ospitare?. Non siamo preparati ad accogliere un turismo di massa. In provincia di Reggio non esiste una economia legata al turismo”.

Non ho mai avuto minacce dal mondo criminale. Ho problemi da quella parte che sta sopra quel mondo. Quelli mi minacciano continuamente. Il criminale lo si può affrontare. Tutto quello che guadagno lo spendo per la mia terra. Nella mia terra non trovo le risorse. Il nemico è quel mondo terribile che sta sopra.

Un’altra domanda che ha spinto lo scrittore a fare una riflessione in chiave antropologica ed estetica, è legata al messaggio del film. “Lo dico con umiltà- ha risposto – chi fa arte lo fa senza pensare, non si dà una regola, non pensa all’effetto. Vorrei che i ragazzi traessero lezione per quello che ho mostrato. Solo un matto, guardando quelle scene, vorrebbe identificarsi con uno di quei personaggi. Non c’è nessun personaggio che si vorrebbe imitare. Viene rappresentata l’ipocrisia. Il personaggio più negativo del film in realtà è la moglie, perché ha sempre saputo chi fosse il marito. Questa è una società ipocrita”. Poi ha aggiunto: “Sia il libro che il film non appartengono all’autore e al regista. Mi piace interagire con chi legge o vede il film. Ma non ci siamo prefissati un messaggio. Noi abbiamo raccontato il microcosmo di quella famiglia. I protagonisti sono loro. Quel mondo si è chiuso in un altro mondo. La sola presenza di quel mondo è protagonista. Si chiude in se stesso e viaggia per se stesso”.

L’analisi del film si è spostata agli altri personaggi protagonisti, in particolare il gesto finale di Luciano, inspiegabile, che uccide il fratello. Criaco ha dato una spiegazione che affonda le radici nella storia recente che ha vissuto l’umanità, in cui sociologia, antropologia e psicoanalisi si incontrano. Ha raccontato che conosce da dentro quella realtà, perché è cresciuto in quel mondo. “Per cambiare o fai distruzione genetica, razzistica o devi capire una parte di quel mondo che può cambiare, altrimenti si ergono dei muri, perché c’è sempre quell’altro che vede il malvagio. Si può togliere il velo al mostro per mostrare il male che ha sempre un fattore scatenante. Non c’è nessun fattore genetico, un maligno che irrora il sangue della mia gente”.

Altra scena di “Anime nere” focalizzata è l’uccisione del figlio di Luciano in una scuola, tradito dal suo amico. “Quando ho iniziato a pensare a quella scena – ha raccontato Criaco – spontaneamente mi è venuta in mente la scuola. Siamo andati a vedere il posto in cui i ragazzi andavano, abbiamo trovato le aule nelle stesse condizioni in cui si vedono nel film. Non potevamo non fare quella scena, non mettere il male nell’innocenza. I ragazzi erano e sono come lo sono soli abbandonati. Gli insegnanti davano l’anima quando erano dentro la scuola. Ma lasciata l’aula svanivano”. A questo punto lo scrittore non si esime dal legare la letteratura e la cultura alla sua salvezza personale, e da dove passi la salvezza delle nuove generazioni che vivono in quegli ambienti: “Il mio cambiamento è avvenuto quando ho varcato la porta della biblioteca dove ho trascorso la mia infanzia e adolescenza.” Altro tema è stato quello della presenza dell’Aspromonte nel film, che lo scrittore ha definito “il cuore pulsante di quel mondo: a volte sembra fermo a volte sembra battere. Il film è stato scritto nel cuore pulsante dell’Aspromonte e i ritmi sono stati dettati da quel modo spontaneo”. Poi il dibattito si sposta su un altro gesto, con lo sputo della madre nei confronti dell’arma dei Carabinieri, visto come un gesto sprezzante nei confronti dello Stato. In merito Criaco ha invitato a “osservare e riflettere, altrimenti noi non saremo esempio e testimoni di cambiamento”. Ha spiegato che lui insieme al regista hanno assistito a tante proiezioni del film nelle diverse occasione per registrare la reazioni dei giovani. “Noi stessi volevamo capire. Allo sputo molte volte sono seguiti degli applausi. È stato per noi una cosa terribile per comprendere il tipo di società. Quello che abbiamo fatto è una sorta di laboratorio. La parte più importante è quella dell’infanzia quando si perde il tempo dell’innocenza.” Poi ha fatto riferimento al luogotenente Cosimo Strameli, eroe che ha fondato un pool per la lotta alla mafia, che recita nel film. “Le forze dell’ordine hanno messo a disposizione le loro stazioni. Il film è stato fatto per l’aiuto del popolo e dello stato”, ha spiegato. “Era necessario che quella testimonianza restasse nel film per il sacrificio di tanti carabinieri e rappresentanti dello Stato”.

Un’altra domanda infine ha ripreso la questione del messaggio del film che racconta un mondo di perduti e di vinti. Criaco, nella sua risposta, ha spiegato che quella poetica è stata superata nel suo nuovo romanzo, “Il saltozoppo”. “L’ho già fatto. I colori sono altri. Racconto il mondo che trova la prospettiva dell’amore.” E ha svelato che “ogni volta che guardo il film è un tornare indietro. Sono dei perdenti. Si erano convinti di essere dei vincenti. Rispetto ai pastori hanno perso l’anima”. In questa nuova luce ha ribadito che bisogna avere “il coraggio di affrontare questo cambiamento. Non ho mai avuto la convinzione che fuori della Calabria sia un mondo meraviglioso: serve a portare un po’ di luce dove c’è buio. Anche il criminale peggiore non vorrebbe fare la sua fine”. Per tali ragioni, ha proseguito Criaco , “l’arte è libera, non lancia messaggi”. E ha osservato che nel libro in realtà i protagonisti sono tre amici “tre personalità in un unico soggetto. La lotta è contro il male che abbiamo dentro di noi: la parte cattiva dentro l’anima di Luciano quando uccide il fratello”. In tutto questo, ha poi sottolineato, vi è “una scelta radicale, con uno sguardo da dentro”. Questo sguardo e questa radicalità, è stato notato, erano anche di Pasolini, intuendo la mutazione antropologica della società nell’era dei consumi. Criaco ha risposto che “già alla fine degli anni ’50, il poeta e regista aveva capito l’anima profonda della Calabria, come si evince dal reportage “Le lunghe strade di sabbia”. L’autore di “Anime nere” ha fatto riferimento alla polemica scatenata da un’affermazione di Pasolini su Cutro, “il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È veramente il luogo dei banditi” scritto nel settembre del 1959 per la rivista “Successo”. E successivamente, il 27 ottobre, con “Una lettera sulla Calabria” al direttore di Paese Sera, Pasolini ha replicato alla polemica, spiegando le raggioni di quella sua affermazione, perché a Cutro, “il quaranta per cento della popolazione è stata privata del diritto di voto perché condannata per furto… ora vorrei sapere che cos’altro è questa gente se non “bandita” dalla società italiana, che è dalla parte del barone e dei suoi servi politici”, imputando la responsabilità “alle classi dominanti che si sono succedute a torturare questa povera terra: e a cui si aggiunge la nuova borghesia democristiana conformista e ipocrita”. Per chiarire il suo rapporto con la Calabria e i calabresi, in quella lettera aveva riportato una sua poesia scritta nel 1949 che avrebbe dovuto intitolarsi “I cantari di Germani Bruno” in cui ricorda i fatti di Melissa e il suo amore per la gente oppressa e diseredata della Calabria. In merito a questa polemica Criaco ha commentato che “Pasolini aveva capito tutto di noi calabresi. Ho visto il film più di 100 volte: ogni volta lo guardo per vedere quella mostruosità. Sento l’effetto emotivo di guardare la mostruosità ma anche la pietas. Io amo veramente questo film, e il libro mi fa capire la mia contraddizione, non di uno che ha scritto e filmato. Guardo l’uomo e le contraddizioni che riguardano tutti gli uomini”.

Alla fine del dibattito è intervenuto, a chiudere l’incontro, mons. Giuseppe Fiorillo (referente provinciale di Libera) il quale ha ricordato, agganciandosi alle ultime riflessioni su Pasolini di Criaco, un’altra affermazione del grande intellettuale barbaramente ucciso nel 1975, che “i chierici hanno tradito il popolo”. Ma se in passato – ha osservato il referente di Libera – gli intellettuali hanno tradito, questo libro percorre un’altra strada”. E ha esortato al riscatto dei giovani: “Tutta questa partecipazione e l’impegno dei ragazzi è segno che vogliono uscire da questo male. È necessario fare un opera pedagogica ed educativa di riscatto. Abbiamo visto dei perdenti, ma non ci riconosce in questi protagonisti negativi: è segno che c’è una vittoria. Da questa storia di vinti nascono dei vincitori.” – ha concluso.