Santa Cecilia, Bach secondo Bahrami

Può un giovane pianista iraniano dire una parola nuova su Bach? Dopo legioni di grandi e sommi interpreti alla tastiera, dopo Helmut Walcha e Marie-Claire Alain, dopo Elliott Gould o lo stesso Andras Schiff di casa qui a Santa Cecilia (solo per fare i primi nomi che vengono in mente)? Grazie a Ramin Bahrami di Teheran, classe 1976, da tempo icona dell’interpretazione bachiana al pianoforte, in concerto domani venerdì 31 a Santa Cecilia (Sala Santa Cecilia, ore 20.30, primo appuntamento della nuova stagione da camera), la risposta è affermativa. Bahrami, con alle spalle un già innalzato monumento discografico al Kantor di Eisenach (come non citare almeno la sua strepitosa lettura de L’arte della fuga?), qui all’Auditorium suona pagine composte da Bach per la didattica del cembalo: le Invenzioni a due voci BWV 772-786 e le Sinfonie a tre voci BWV 787-799. Fogli d’album per studiare e affinare le capacità tecniche, certo, ma pure molto di più. Perché per Bach imparare a suonare voleva dire anche, ed essenzialmente, “acquisire l’arte del cantabile e il gusto della composizione”. E’ lui stesso a precisarlo in calce allo spartito dato alle stampe. Pagine intimamente bachiane, dunque, essendo in Bach inesistente il confine tra tecnica, struttura formale ed espressione. Così come le altre due che Bahrami esegue a Santa Cecilia: la Suite BWV 832 e il Preludio, fuga e allegro BWV 998. Testi scelti con acume per il recital dell’iraniano, decisamente in chiave con le sue corde: Bahrami, tra i grandi pianisti bachiani d’oggi, è quello che forse è sceso più in profondità nella materia dell’arte compositiva di Bach. Affermazione azzardata, sì, ma che meno appare tale se si considera un fatto: Bach è infinitamente lontano dallo stereotipo del musicista tedesco tutto ed esclusivamente metodo e rigore. Il che non vuol dire, ovviamente, che Bach sia stato un luddista del pentagramma; ma che la sua opera fonde, come mai era stato prima di lui e come in alcun suo contemporaneo avviene, un eccezionale “istinto della forma” e un motore che con pari potenza lascia affiorare – nello stesso tessuto formale – pathos e calore di “affetti”. Ed è esattamente questa la cifra di Bahrami: rispettare senza compromessi il sublime ordito del contrappunto bachiano, senza forzare la mano (e dunque tempi saldi, scansione metronomica, rubato quanto basta e filologia consente); nel contempo, marcare per via di dinamica e colore le trascinanti latenze emotive (quando non le esplicite epifanie) che muovono l’universo bachiano in espansione. Bahrami lo fa cum grano salis, non ha bisogno di esagerare per lasciar affiorare lo splendore febbrile che nella scrittura bachiana è tutt’uno con la pienezza geometrica. E sempre cum grano salis Bahrami si permette quella licenza che molti puristi gli rimproverano: usare il pedale che nel pianoforte prolunga il suono. Grave errore filologico, s’è detto, dato che all’epoca di Bach quel pedale non c’era, né nel clavicembalo né nei primi modelli di fortepiano di cui il Kantor può aver avuto esperienza. Ma Bach era un grande sperimentatore. E se avesse avuto sotto mano un moderno gran coda con quel pedale, avrebbe storto il naso oppure sarebbe rimasto ore a provare quell’effetto d’eco, magari sulle cadenze finali e – con grande delicatezza e misura – su certi passaggi arpeggiati o su quelli ad accordi pieni? Bahrami, crediamo, propende per la seconda ipotesi (e noi con lui…).