Capistrano, Pierre Auguste Renoir rifece gli affreschi nella chiesa Parrocchiale. Lo attesta il libro di Antonio Pasceri

Pasceri e FioroniL’opera “Il battesimo di Gesù nel fiume Giordano” nella chiesa parrocchiale di Capistrano, è del grande pittore impressionista francese Pierre Auguste Renoir. Lo attesta Antonio Pasceri, nel libro intitolato “ Renoir da Napoli alla Calabria – 1881/1882 da Napoli a Capistrano di Calabria – Memoria popolare, storica e giornalistica”(Casa Editrice Kimerik) pubblicato di recente. In questa ricerca il giornalista e studioso di storia locale, dimostra con resoconti di memoria popolare, storici e giornalistici, che l’affresco è stato “rifatto” nel 1881-1882 da Renoir (1840-1919). Il caso dell’attribuzione era stato sollevato nel 1966 dallo scrittore-giornalista Sharo Gambino (1925-2008) e poi dal pittore locale Franco Natale, che hanno individuato in Renoir quello “sconosciuto pittore straniero” che tra la fine del 1881 e l’inizio del 1882 aveva soggiornato in Capistrano e aveva “rifatto” gli affreschi in Chiesa a seguito dell’invito avuto in Napoli da Don Giacomo Rizzuti (1820-1905), sacerdote originario di Capistrano precettore nella nobile famiglia partenopea dei Bonanno.  A catalizzare l’attenzione, il libro “Renoir mio Padre”, scritto dal figlio Jean (1894-1979) regista ed attore cinematografico, che aveva ricevuto le notizie direttamente dall’anziano e ammalato padre, quando andava a trovarlo e fargli compagnia. Dopo la pubblicazione di questa monografia (1962), la Calabria fu invasa da turisti tedeschi, inglesi e, soprattutto, francesi che speravano di trovare qualche ritratto fatto da Renoir alle “mesdemoiselles”, circoscrivendo le loro ricerche nella zona del Vibonese, zona ritenuta come la più probabile per il soggiorno di Renoir, perché il settimanale Epoca, nel 1952 (come aveva notato Gambino), nella rubrica “Lettere al direttore”, pubblica una lettera di una donna che chiedeva chi potesse essere il pittore che aveva fatto il ritratto alla sua nonna quando era bambina, chiamandola “mademoiselle”. Ma tutti i ricercatori si erano soffermati a cercare nei paesi vicini al mare e mai in quelli interni e soprattutto in quelli come Capistrano che erano stati notoriamente privi di strade di accesso.

Come lo stesso Pasceri sottolinea in questo suo importante lavoro di ricerca, nonostante sia dato per certo (come testimonia il figlio Jean) che Renoir andò in Calabria e “rifece” nella chiesa di un villaggio calabrese gli affreschi, e che la tradizione capistranese avesse attribuito sempre il “rifacimento” di alcuni “affreschi” o pitture murali ad uno sconosciuto pittore straniero nel periodo natalizio 1881-1882, nessuno però degli abitanti ricordava il nome di tale pittore, se non come “mastru Pietru”. La spiegazione, secondo Pasceri, è dovuta al fatto che nei secoli XVIII- XIX, i capistranesi videro nel proprio paese la presenza di vari artisti, soprattutto scultori e pittori, che realizzarono magnifiche sculture di marmo bianco di Carrara tuttora esistenti, stile scuola Canova (fontana monumentale nel giardino della famiglia marchesale Buongiorno, cenotafio e busto del marchese Pietro Buongiorno nonché  busti degli apostoli Pietro e Paolo in chiesa), pregiate statue lignee raffiguranti Santi, pitture murali prima e dopo il disastroso terremoto del 1793 (come, ad esempio, viene ricordato dal verbale della visita pastorale di mons. Gaetano Tigani della Curia vescovile di Mileto datata  10.5.1817).

Pasceri, nella sua veste di giornalista, ma anche di amministratore (sindaco di Capistrano dal 1964 al 1989) e di presidente della Pro Loco (dal 1984 al 2011), non ha mai smesso la sua ricerca per reperire fonti e testimonianze “storiche”, specialmente dopo che, convinto della presenza della mano di Renoir sull’affresco di Capistrano, si è detto  anche il noto scrittore Andrea Camilleri, nel suo libro “Il cielo Rubato”. Per la sua documentata ricostruzione, dopo le varie polemiche e prese di posizioni contrastanti da parte di storici, artisti e critici d’arte, il lavoro di Pasceri (che si avvale della prefazione dello storico Saverio Di Bella, che in passato si era occupato della questione), rappresenta un importante risultato, su cui storici e critici d’arte, ma anche le istituzioni culturali come la Sovrintendenza, dovranno prendere atto.

In sintesi la documentata ricostruzione che Antonio Pasceri compie nel suo libro “ Renoir da Napoli alla Calabria – 1881/1882 da Napoli a Capistrano di Calabria – Memoria popolare, storica e giornalistica”(Casa Editrice Kimerik)

Con tale lavoro l’autore, nel riepilogare con particolari inediti l’affascinante storia, “resa contorta e ferita da dubbi artificiosi e da ragionamenti vacui”, abbandona qualsiasi dubbio per affermare e dimostrare con resoconti di memoria popolare, storici e giornalistici che l’affresco esistente nella chiesa parrocchiale di Capistrano “Il battesimo di Gesù nel fiume Giordano” è stato “rifatto” nel 1881-1882 dal grande impressionista francese Pierre Auguste Renoir (1840-1919).

Pasceri apprese nel 1966 dallo scrittore-giornalista Sharo Gambino e poi dal pittore locale Franco Natale, suo cugino, che era stato individuato nel grande Pierre Auguste Renoir (1840-1919) quello sconosciuto pittore straniero che tra la fine del 1881 e l’inizio del 1882 aveva soggiornato in Capistrano e aveva “rifatto” gli affreschi in Chiesa a seguito dell’invito avuto in Napoli da Don Giacomo Rizzuti (1820-1905), un sacerdote capistranese che era precettore presso la nobile famiglia partenopea dei Bonanno.

Il libro di Pasceri rappresenta un punto fermo che risulta essere opportuno e necessario dopo le varie polemiche e prese di posizioni contrastanti da parte di storici, artisti e critici d’arte, nonostante sia dato per certo (per averlo scritto il figlio Jean in “Renoir mio padre”, Garzanti, 1962) che Renoir andò in Calabria e “rifece” nella chiesa di un villaggio calabrese gli affreschi, che erano andati distrutti dall’umidità e dall’incuria, con colori avuti dai muratori del luogo, e nonostante la tradizione capistranese avesse attribuito sempre il “rifacimento” di alcuni “affreschi” o pitture murali ad uno sconosciuto pittore straniero che nel periodo natalizio 1881-1882 aveva soggiornato a Capistrano presso i familiari del sacerdote don Giacomo Rizzuti (1820-1905) che aveva conosciuto a Napoli.

Nessuno, però, ricordava il nome di tale pittore, anche perché nei secoli XVIII- XIX i Capistranesi videro la presenza in Capistrano di vari artisti, soprattutto scultori e pittori, che realizzarono magnifiche sculture di marmo bianco di Carrara tuttora esistenti, stile scuola Canova (fontana monumentale nel giardino della famiglia marchesale Buongiorno, cenotafio e busto del marchese Pietro Buongiorno nonché  busti degli apostoli Pietro e Paolo in chiesa), pregiate statue lignee raffiguranti Santi, pitture murali prima e dopo il disastroso terremoto del 1793, come, ad esempio, viene ricordato dal verbale della visita pastorale di mons. Gaetano Tigani della Curia vescovile di Mileto datata  10.5.1817.

Dei nomi di questi artisti che avevano operato o soggiornato in Capistrano non c’è traccia, tantomeno di quel pittore straniero che, di passaggio e gratuitamente, aveva “rifatto” gli affreschi in chiesa nel periodo natalizio del 1881, perché il sacerdote don Domenico Rizzuti, accortosi che l’ospite straniero era un bravo pittore, glielo chiese, d’accordo con il parroco pro tempore sac. Domenico Manfrida.

Per niente importava al semplice e pio don Domenico o al parroco o al sindaco del tempo annotare la presenza dell’ospite, peraltro ancora ignoto, e tantomeno interessava ai Capistranesi che lo avevano sempre chiamato “mastru Pietru”, non conoscevano la sua lingua, erano quasi tutti contadini ed analfabeti,  erano vissuti isolati dal mondo per essere rimasti privi di una strada che collegasse il loro abitato al resto del mondo e, inoltre, vivevano in grande miseria come allora accadeva in tutti i paesi montani che, sprovvisti di strade e di scuole, traevano sostentamento solo dall’agricoltura e di piccoli scambi.

Fino ad allora, infatti, l’unica via di comunicazione era costituita, per Capistrano, dalla mulattiera “Liga” che collegava il centro abitato alla sottostante contrada “Liga”, dove passava (e passa) la  “strada regia”( S.S.110), così detta per essere stata costruita dal re borbone Fe rdinando II per meglio collegare le sue fiorenti acciaierie di Mongiana e Ferdinandea al porto commerciale di Pizzo. Quei pochi Capistranesi che erano costretti per motivi di studio ad allontanarsi da Capistrano dovevano percorrere, a piedi, i circa quattro chilometri della mulattiera “Liga” e poi i circa 20 km per raggiungere Pizzo, salvo, se più fortunati, a percorrere tale ultimo tratto in carrozza tirata dai cavalli che periodicamente  collegava Serra San Bruno a Pizzo Calabro e viceversa.

Tale stato di isolamento dal mondo cessò, per Capistrano, nel 1928-1929 a seguito della costruzione della strada che dalla S.S. 110 che, passando per Capistrano, giunge a San Nicola Da Crissa (S.S.110), già collegato con Serra San Bruno, con contestuale trasferimento del servizio pubblico automobilistico collegante Pizzo Calabro a Serra San Bruno, e viceversa, per il trasporto della posta e delle persone.

Lo stato di isolamento dal mondo, che aveva favorito la povertà e l’alto tasso di analfabetismo (oltre il 97% della popolazione era analfabeta), aveva contribuito a fare rimanere ignoto il nome di quel simpatico pittore straniero da tutti chiamato semplicemente “mastro Pietru”, mentre per gli altri artisti  o “mastri” (pittori, scultori, ecc.) non rimase alcun ricordo, nemmeno il nome. D’altronde Renoir in quel tempo non era ancora un famoso pittore nemmeno in Francia e il suo viaggio in Italia fu favorito dalla vendita e dall’ordinazione (nel 1880) di alcuni quadri per merito di suo fratello Edmond che nel 1979 pubblicò un articolo sulla rivista “Vie Moderne” e gli organizzò una “personale”.  Lo stesso gallerista Durand-Ruel pare avesse contribuito economicamente al viaggio in Italia da dove l’artista avrebbe dovuto portagli ritratti di paesaggi ed altro (cnf. lettera “Napoli,25 novembre 1881” indirizzata a Durand-Ruel).

Ma facciamo un passo indietro. Dopo il 1962 accadde qualcosa che a poco a poco fece risvegliare l’assopito disinteresse dei Capistranesi e non solo, perché fu pubblicato, in lingua italiana, dalla Garzanti il libro “Renoir mio Padre”, scritto da Jean Renoir (1894-1979), regista ed attore cinematografico, che aveva ricevuto le notizie direttamente dall’anziano e ammalato padre, quando andava a trovarlo e fargli compagnia.

Dopo la pubblicazione di questa monografia, la Calabria fu invasa da turisti tedeschi, inglesi e, soprattutto, francesi che speravano di trovare qualche ritratto fatto da Renoir alle “mesdemoiselles”, circoscrivendo le loro ricerche nella zona del Vibonese, zona ritenuta come la più probabile per il soggiorno di Renoir, perché il settimanale Epoca aveva pubblicato nella rubrica “Lettere al direttore” una lettera di una donna che chiedeva chi potesse essere il pittore che aveva fatto il ritratto alla sua nonna quando era bambina, chiamandola “mademoiselle”.

Tutti i ricercatori si erano soffermati a cercare nei paesi vicini al mare e mai in quelli interni e soprattutto in quelli come Capistrano che erano stati notoriamente privi di strade di accesso.

Nel 1966 il prof. Giuseppe Maria Pisani, da Serra S. Bruno, insegnando materie artistiche nella scuola media di Capistrano, rimase colpito dalle sculture marmoree esistenti in Chiesa e soprattutto dagli affreschi “L’adorazione dei Magi” (quasi sbiadito) e di quello meglio conservato “Il Battesimo di Gesù nel fiume Giordano”, tanto che, incredulo, riteneva di avere riscontrato “toni chiari e luminosi” che gli ricordavano l’Impressionismo.

Di ciò parlò, a Serra San Bruno, con il suo compaesano Sharo Gambino, storico e giornalista, che da qualche anno girava per la Calabria in cerca di tracce del passaggio e del soggiorno di Renoir.

Gambino, Pisani, Curatolo (altro docente di storia d’arte) e l’indigeno pittore Franco Natale, in presenza dell’affresco “Il Battesimo di Gesù nel fiume Giordano” (riscontrando i colori di Renoir e particolari simili a quelli di altri quadri di Renoir) e della scoperta che da Napoli era venuto a Capistrano nel dicembre 1881 un pittore straniero su invito del sacerdote capistranese don Giacomo Rizzuti (junior) che operava in Napoli come precettore presso la nobile famiglia Bonanno, non ebbero dubbi di aver trovato in Capistrano il villaggio dove il pittore di Limoges aveva soggiornato e aveva “rifatto” gli affreschi nella chiesa.

Il soggiorno nel villaggio calabrese fu favorito dalla conoscenza che Renoir fece a Napoli con il sacerdote don Giacomo Rizzuti che lo invogliò a visitare la Calabria ed i paesaggi incontaminati del suo paesetto, facendolo ospitare nella sua casa paterna di Capistrano, dove vivevano,  l’anziana sua madre Vittoria Pasceri, vedova da qualche anno (1801- 1882 ), suo fratello don Domenico, anch’egli sacerdote (1817-1898), sua sorella Eleonora (1835-1896) e suo cognato Stefano Natale, vedovo (1828-1901), che nel 1859 aveva sposato sua sorella Maria Teresa (1833-1879).

Nel 1966, in Capistrano, nella casa posta in Via Tripona, abitata allora dalla famiglia Giovanni  Manfrida – Maria Natale (quest’ultima nipote diretta dei coniugi Stefano Natale –  Maria Teresa Rizzuti) i nostri ricercatori ebbero conferma che nella seconda metà del XIX secolo operava il sacerdote don Giacomo Rizzuti, loro congiunto, del quale vi era ancora appeso al muro un ritratto ad olio su tela.

Il cerchio “magico” per i Nostri si chiudeva con il riscontro di varie similitudini fra particolari dell’affresco di Capistrano ed altri di alcune opere di Renoir (Ragazza col cappello, Ballo di Bougival, Diana Cacciatrice, ecc.), ma anche con la prova “storica” avuta dall’incontro-intervista con l’anziana donna Concetta Furlano (1874-1968) che confermò sia a loro sia agli alunni della scuola media (che allora fecero delle ricerche con il loro prof. Pisani) sia ad altri che quando era bambina le fu fatto un ritratto da un pittore straniero che la chiamava “madamoiselle” (Il Tempo 20.9.1966, Gazzetta del sud 6.10.1966,ecc.).

Dalla fine degli anni Sessanta i Capistranesi si domandano: “Chi l’avrebbe mai pensato che “mastru Pietru” sarebbe diventato un dei pittori più importanti e che ogni piccola tela con il ritratto del viso dei bambini sarebbe valsa nel giro di un cinquantennio milioni di lire?”

I discendenti di quelle mamme e di quelle bambine si mordono il gomito per quei ritratti che gli ascendenti buttarono fra le immondizie o bruciarono nei loro caminetti o in piazza nei tradizionali falò del Giovedì Santo in occasione delle riparazioni e delle pitturazioni con latte di calce che venivano fatte alle case da dare in dote alle figlie che si sposavano.

Nel 1993, in occasione del ripristino dell’edificio parrocchiale di culto, essendo venute alla luce due nuove pitture murali “La Maddalena” e “La Samaritana” che erano state coperte con intonaci di calce nel 1922 in occasione di altri lavori effettuati nella chiesa (e ciò conferma l’abitudine in Capistrano di eliminare il “vecchio” in occasione di ripristini), qualche giornale diede notizia di tale scoperta ipotizzando l’attribuzione a Renoir.

Si aprì una querelle generata da un’intervista al TG3 del 25 agosto 1993 (Pino Nano) e alla Gazzetta del Sud del 26 agosto 1993 rilasciate dal prof. Maurizio Calvesi, noto critico d’arte e docente ordinario di storia d’arte all’UniversitàLa Sapienza, che classificò l’affresco del Battesimo di Gesù di Capistrano come “una crosta del Settecento”.

Il dubbio, stante la notorietà di Calvesi, rimase, nonostante smentito dal presidente della pro loco Antonio Pasceri con una intervista rilasciata lo stesso giorno a Pino Nano (in diretta radiofonica RAI 3 delle ore 12 circa) e con una documentata replica pubblicata dalla Gazzetta del Sud il giorno dopo (27.8.1993) e nonostante altra smentita alla dichiarazione del prof. Calvesi giunse da una conferenza stampa organizzata dalla Pro Loco con resoconto pubblicato dal predetto quotidiano in data 31.8.1993, che riportò le posizioni contrarie a Calvesi espresse dal prof. Saverio Di Bella, ordinario di storia moderna all’Università agli Studi di Messina, dallo scrittore e giornalista Sharo Gambino, dai prof. M. Giuseppe Pisani, Franco Natale, Giovanni Manfrida, Giampiero Nisticò, Nicola Valente e poi (L’Unità del 10.2.1994) dal prof. Xante Battaglia, ordinario all’Accademia di Brera e titolare della cattedra di pittura all’Accademia di Venezia.

Si registrarono anche le posizioni possibiliste del critico d’arte Vittorio Sgarbi e quelle caute del prof. Zeri, riportate in data 10 febbraio 1994 da alcuni quotidiani (L’Unità, Gazzetta del Sud, Il Giornale di Calabria), mentre la Sovrintendenza per i beni culturali ed ambientali della Calabria (che aveva classificato l’affresco di Capistrano “un mucchio di croste” e “un’opera scadente attribuibile ad un pittore locale” – Gazzetta del Sud 30.6.1991), dovette ricredersi dopo che il Ministero dei beni culturali ed ambientali, rispondendo (Prot.n.5991 del 15.11.1993) ad una interrogazione parlamentare dell’on. Carmelo Pujia (che si era attivato a seguito richiesta dell’autore di questo libro, allora presidente della pro loco) evidenziò che per mancanza di documenti storici d’archivio non si poteva attribuire l’opera a Renoir, ma che “L’opera si può contrassegnare come pittura del XIX secolo il cui schema compositivo risulta di buona fattura, mentre la materia appare scadente”. Quindi, non si trattava più e non si tratta di “crosta del Settecento” e tantomeno di un “opere di qualità scadente attribuibili ad un pittore locale”.

La nuova posizione assunta dalla Sovrintendenza fu ritenuta positiva dagli studiosi locali (Natale, Gambino, Pisani,…..) perché confermava quanto lo stesso Jean Renoir aveva scritto in “Renoir mio padre” (e aveva dichiarato in una intervista giornalistica del 1952, riportata da Pasceri nel suo libro) e cioè che Renoir aveva “rifatto” gli affreschi con polveri avute dai muratori locali e, quindi, “materia scadente” e quanto gli stessi sostenevano da sempre: opera di buona fattura risalente al XIX secolo e non al XVIII come Calvesi e la stessa Sovrintendenza avevano sostenuto.

Nel 1995, a seguito delle insistenze dell’autore di questo libro, la Sovrintendenza scrisse allo stesso (9.8.1995 prot.n.7120) che per l’attribuzione definitiva del dipinto murale era necessaria una testimonianza storica che comprovasse la presenza di Renoir in Capistrano all’epoca della realizzazione del dipinto stesso.

Pasceri, pur avendo fatto presente che per l’attribuzione di un’opera ad un artista sarebbe necessario soltanto esaminare l’opera, si diede alla ricerca di ulteriori ricerche per reperire altre testimonianze “storiche”, specialmente dopo che convinto della presenza della mano di Renoir sull’affresco di Capistrano si è detto  anche il noto scrittore Andrea Camilleri nel suo libro “Il cielo Rubato – Dossier Renoir – Skira Editore,2009.

Recuperate e raccolte vecchie e nuove testimonianze, Pasceri ha preferito pubblicarle (assieme ad altro) nel suo libro “Renoir da Napoli alla Calabria -1881/1882 da Napoli a Capistrano di Calabria – Memoria popolare, storica e giornalistica” al fine sia di rimandare la “vera” storia documentata ai posteri sia di fornire alla Sovrintendenza anche testimonianze storiche per l’attribuzione definitiva della pittura murale del “Battesimo di Gesù nel fiume Giordano” eseguita da Renoir (affermò X. Battaglia) con <<tempera murale, usata anche da Leonardo nell’ “Ultima Cena”>>.

E’ un libro che si legge agevolmente e che chiude definitivamente un tassello della vita del Renoir, quello del suo viaggio e del suo soggiorno in quel “villaggio di campagna”, Capistrano, dove pranzava e cenava anche con le umili e povere famiglie dei contadini (“generosi e allegri nella loro miseria”), dove mangiava anche nei frantoi oleari, assieme ai “frantoniani” (operai) pane arrostito sulla brace della sansa (che, accesa sotto una grande caldaia di rame, serviva a tenere sempre calda l’acqua per la lavorazione delle olive) spalmato con olio appena prodotto, e dove, infine, prima di morire, desiderava ritornare “sia pure per l’ultima volta”, perché lui, conosciuto come “mastru Pietru”, cioè un semplice pittore di passaggio, era divenuto un amico di tutti e tutti erano felici quando “mastru Pietru” <faceva il ritratto al bambino> o semplicemente si fermava a casa loro per consumare il pasto che poteva comprendere uno o più generi che i contadini producevano direttamente (fagioli, ceci, verdura che spontaneamente spuntava nei campi, patate, castagne e fichi secchi, arance, pane fatto in casa, qualche bicchiere di vino, oltre a qualche salsiccia o pezzo di lardo del maiale che molte famiglie allevano direttamente).

Peccato che le generazioni successive si disfacessero di quei ritratti e di altro quando, per tradizione, dovevano sistemare la casa o semplicemente dipingere con latte di calce le pareti in modo da essere pulite e spoglie di ogni cosa “vecchia” quando la casa andava in dote alla figlia che prendeva marito.