Maria Federici, la Costituente, l’emigrazione italiana e l’Anfe in un convegno a Pescara

Si è tenuto il 13 dicembre 2012 a Pescara nella Sala “Figlia di Jorio” della Provincia  – che espone la splendida tela di Francesco Paolo Michetti – il convegno “Le pioniere della parità: Filomena Delli Castelli e Maria Federici, costituenti abruzzesi”, promosso dal CIF ed organizzato con ottimi esiti dalla scrittrice Cinzia Maria Rossi, che ha peraltro coordinato i lavori. All’evento ha portato il saluto il Presidente del Consiglio Regionale d’Abruzzo, Nazario Pagano, dando poi l’incipit alle relazioni sulle due Costituenti abruzzesi svolte, nell’ordine, da Goffredo Palmerini, Adelmo Marino, Alessandra Portinari e Licio Di Biase, cui sono seguiti gli interventi delle donne impegnate nelle Commissioni di Pari Opportunità in Regione Abruzzo e nei maggiori Enti locali (Letizia Marinelli, Vittoria Colangelo, Daniela Arcieri Mastromattei, Desirée Del Guovine),  i riferimenti delle esperienze delle donne elette in Consiglio Regionale, Nicoletta Verì e Marinella Sclocco, una toccante testimonianza storica del sen. Nevio Felicetti, infine il saluto delle esponenti dell’UDI e del CIF (Francesca Magliulo e Franca Aloisi Pelusi), due storiche associazioni impegnate sin dall’alba dell’Italia repubblicana sui temi dell’emancipazione femminile. Quella che segue è la sintesi della  relazione svolta al Convegno da Goffredo Palmerini.

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Se non ci avesse lasciato qualche mese, l’on. Alberto Aiardi starebbe qui a parlare delle due Costituenti abruzzesi, Filomena Delli Castelli e segnatamente Maria Federici, della quale egli fu stretto collaboratore nell’Anfe e vice Presidente nazionale dell’associazione da lei fondata, attento studioso degli scritti e suo biografo. E tuttavia sono grato a Cinzia Maria Rossi per avermi rivolto l’invito a portare, per quanto modesto, un contributo. Occorre subito dire che per tratteggiare vita ed opere di Maria Federici – atteso che dell’on. Filomena Delli Castelli riferiscono illustri relatori – necessita dapprima fare un breve excursus sull’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra.

Per entrare nel contesto d’un fenomeno di così vasta portata nazionale, qual è l’emigrazione, occorre rifarsi mentalmente alle sue radici ed al suo corso, almeno per dare la misura di come sia cambiato nel tempo. Ma sarà difficile comprenderlo nella sua complessità se non si risale, sia pure per brevi cenni, all’inizio dell’emigrazione di massa. Al tempo, cioè, in cui nel nostro Paese l’emigrazione esplose come fenomeno diffuso, tra il disorientamento e l’incomprensione generale. Dunque, a quegli anni tra il 1880 e l’inizio del nuovo secolo, quando non si riuscì a dar vita ad un solo provvedimento per la disciplina del diritto d’emigrare che valesse, nel contempo, anche come una definita forma di protezione umana e civile dei migranti. L’intervento pubblico fu incerto, norme ed applicazioni servirono solo a rendere più confuso l’andamento d’un fenomeno che andava invece affrontato con propensione a coglierne nel profondo l’essenza sociale. Ma così non fu. E l’esercito di braccia che partì dall’Italia verso le terre d’emigrazione si trovò a dover affrontare inimmaginabili e drammatiche vicende umane, a lottare ogni giorno contro sospetti e pregiudizi, a subire spesso angherie d’ogni sorta, a doversi confrontare in competizioni durissime, con sistemi sociali sconosciuti e condizioni di lavoro altrettanto precarie. Basti ricordare la catastrofe di Monongah in West Virginia, negli Stati Uniti, dove nelle viscere delle miniere di carbone persero la vita quasi un migliaio di lavoratori – e tra essi molti bambini – rispetto alla cifra ufficiale di 371 vittime, resistita fino a qualche anno fa, quando sulla tragedia si è fatta chiarezza a distanza di un secolo da quel terribile 6 dicembre 1907, grazie alla tenace determinazione del direttore d’un giornale italiano in America (Domenico Porpiglia, La Gente d’Italia). Tra quelle vittime molti italiani, tanti gli abruzzesi e sopra tutto i molisani.

Qualche anno fa è stata illuminante, più d’ogni altra analisi sociologica, la narrazione dell’emigrazione italiana, con tutti i suoi dolori materiali e morali, fatta da Gian Antonio Stella nel suo libro  “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi”. Un volume che ha riacceso l’interesse, una finestra che ha ben illuminato il fenomeno migratorio italiano all’opinione pubblica, portata oggi più a celebrare le conquiste civili, economiche e sociali della nostra emigrazione, e meno a riflettere a costo di quali sacrifici questo sia accaduto. Eppure, basti solo rammentare quanto accadeva appena qualche decennio fa nella civilissima Svizzera in fatto di pregiudizi verso gli emigrati italiani, fino a tenere persino qualche referendum dagli evidenti contorni xenofobi. In effetti dell’emigrazione italiana – una vera e propria epopea – si tende a richiamare le rilevanti affermazioni dei nostri connazionali in ogni settore nei Paesi d’accoglienza, al cui sviluppo hanno fortemente contribuito. Hanno infatti conquistato sul campo, in condizioni assai difficili, ragguardevoli risultati grazie alla loro laboriosità, all’ingegno e all’intraprendenza creativa, come pure alla correttezza dei loro comportamenti, tanto da guadagnarsi rispetto e stima con testimonianze di vita esemplari. Hanno reso così un ulteriore servizio all’Italia, persino più importante d’aver contribuito con le proprie rimesse alla sua ricostruzione e al suo progresso, nell’aver dimostrato in ogni angolo del mondo quali siano le qualità e le doti della gente italiana, in Paesi dove la considerazione verso l’Italia talvolta è misurata più sui nostri difetti in Patria che non sulle nostre virtù. Non è un mistero che in Italia le nostre abitudini risentano di antichi vizi e si stenta ancora ad affermare uno Stato con autentiche pari opportunità per tutti, nei diritti ma anche nei doveri, dove leggi e regole dell’organizzazione sociale presiedano rigorosamente al comportamento individuale come pure nella coscienza diffusa di tutti i cittadini. Quando questo non avviene – e talvolta cattivi esempi vengono proprio dalla classe dirigente – di noi all’estero invale un concetto non certo edificante e con severità siamo giudicati come l’Italietta, piuttosto che il grande e moderno Paese che potremmo essere con comportamenti più virtuosi, ammirato per la nostra cultura e per le bellezze che tutti c’invidiano. Queste criticità non riguardano i nostri connazionali all’estero, perché con il loro specchiato comportamento offrono dell’Italia un’immagine seria ed affidabile, dimostrandosi i nostri migliori ambasciatori nel mondo.

E tuttavia in Italia, nella mentalità di larga parte della classe dirigente, persistono stereotipi e paternalismi verso i connazionali all’estero che rivelano un grave deficit di conoscenza del fenomeno, tanto da limitare le opportunità di valorizzarlo come preziosa realtà sulla quale investire. Per chi abbia un minimo d’interesse e d’umiltà, l’avvicinarsi alle nostre comunità all’estero consente di scoprire un patrimonio inimmaginabile di risorse umane, professionali ed imprenditoriali, così ben inserite in quelle società, che porta ai nostri connazionali, e quindi all’Italia, una messe di riconoscimenti e di prestigio, conquistati in decenni d’impegno, talvolta contro supponenze e pregiudizi. Oggi gli italiani all’estero sono considerati per il loro valore umano, sociale, creativo ed intellettuale. Hanno raggiunto risultati di rilievo in ogni campo di attività e nei ruoli di responsabilità assunti nei Paesi in cui vivono. Le generazioni seguite alla prima emigrazione esprimono adesso una schiera di personalità emergenti in ogni settore della vita sociale e civile, dall’imprenditoria alle professioni, dall’economia alle università, dalla ricerca alla politica, persino nei Parlamenti e nei Governi. Per gli Abruzzesi questo è ancor più evidente. Riscattando le condizioni di dignitosa povertà che furono alla base della loro emigrazione in ogni angolo del mondo, lasciando i borghi sulle montagne grame o i villaggi delle pianure ancora soggiogate dal latifondo, gli Abruzzesi si sono guadagnati dovunque rispetto e considerazione, specie nell’ultimo mezzo secolo, contribuendo crescita dei Paesi d’emigrazione. Una constatazione che riempie di legittimo orgoglio. Basti solo rilevare come il figlio d’un emigrato abruzzese in Belgio, Elio Di Rupo, sia oggi il Primo Ministro di quel Paese.

Ma torniamo alla storia. Quando nel secondo dopoguerra si riaprì l’emigrazione, si ripresentarono problemi e difficoltà analoghi a quelli riscontrati a fine Ottocento. Ancora una volta si commise l’errore di considerare l’emigrazione di massa come strumento per alleviare la disoccupazione. Non si pensò che occorreva togliere subito all’agricoltura l’ancestrale carattere di occupazione non sufficientemente remunerata, oppressa com’era da intollerabili gravami, che occorreva non disperdere l’artigianato, che infine occorreva superare le barriere che avevano privato tante popolazioni, e per lungo tempo, della cultura e della formazione professionale. Insomma, si ricadde negli stessi errori, quando di quel salasso di forze non si riusciva a tener conto neanche dal punto di vista statistico, mentre era lo specchio della persistenza degli squilibri economici d’uno Stato ancora territorialmente incompiuto. Tutto veniva rimesso all’iniziativa privata, nella speranza che fosse in grado di approntare nuove opportunità di lavoro. Dunque è evidente come fosse naturale, in presenza d’una sordità sociale così palese, la fuga muta ed ostinata di chi non aveva neanche l’essenziale per sopravvivere. Non è il caso d’indagare se ci fosse o meno una coraggiosa spinta imprenditoriale in quegli italiani che tra difficoltà oggettive dovevano costruire uno Stato nuovo ed unitario, non solo a parole. Ma appare chiara l’insufficiente presa di coscienza dell’emigrazione come problema nazionale, come questione sociale ormai inquietante, come protesta silenziosa e sprezzante. E così l’emigrazione nacque con quel suo carattere, durato più d’un secolo, di spinta incontrollata ed incontrollabile, per mancanza d’un adeguato piano governativo, sia di sostegno ai partenti, sia per il riassorbimento in patria delle forze emigrate, nel contesto d’una politica economica programmata che almeno governasse l’emigrazione aiutandola sia nella fase dell’espatrio che in quella del rientro, con una serie di servizi e d’infrastrutture. Questo perché l’uscita dal Paese non fosse un atto d’arrischiata avventura ed il ritorno una faticosa reintegrazione.

La spinta ad emigrare ebbe dapprima i suoi banditori, come gli agenti delle linee di navigazione ed i rappresentanti degli interessi d’oltreoceano che nei più sperduti paesi d’Italia portavano la suggestione d’una fortuna a portata di mano. Dopo un secolo, di fortuna non si parlava più e la ripresa dell’emigrazione, dal 1946, fu collegata a rapporti di lavoro dipendente soprattutto con le industrie estrattive. Tutt’al più si sperava in contratti vantaggiosi, specie per i lavoratori delle miniere – a quali costi ce l’avrebbe poi rivelato la tragedia di Marcinelle, nel 1956, con i suoi 262 morti – rispetto agli scarni trattamenti salariali che allora si fruivano in Italia. E tuttavia resta nitida l’impronta dell’emigrante italiano, a volte un pioniere, un avventuroso ed un campione di coraggio e sobrietà, in altri casi chi cercava la sicurezza del pane quotidiano, stabilità del lavoro e qualche forma di protezione sociale. Dall’unità d’Italia ad oggi le migrazioni con l’estero hanno certamente rappresentato un fattore di primaria importanza nell’evoluzione socio-economica del Paese. Solo a partire dagli anni ’70 si è cominciata a delineare un’inversione di tendenza, rivelata prima dall’attenuarsi dei fattori d’espatrio e poi dalla trasformazione dell’Italia, per i più imprevista ed inattesa, da paese d’emigrazione a paese d’immigrazione. Tornando al periodo in esame, la fine del secondo conflitto mondiale segna l’avvio d’una ulteriore fase d’intensa emigrazione dall’Italia verso l’estero. L’arretratezza delle strutture di produzione e la continua fuoriuscita di manodopera dal settore agricolo determinano infatti un’ampia disoccupazione, specie nelle regioni meridionali. La promozione dell’emigrazione viene vista come un rimedio agli squilibri interni tra domanda ed offerta di lavoro, tanto che viene pubblicamente proposta con il “Piano Tremelloni”, mirato a favorire gli espatri. Sebbene i fenomeni migratori riguardino anche il nord d’Italia – tanto che le regioni settentrionali tra gli anni ’50 e ’60 vedono aumentare la propria popolazione di diversi milioni di persone provenienti dal meridione – i flussi verso l’estero continuano ad essere la punta più vistosa del fenomeno. Nell’immediato dopoguerra i flussi s’indirizzano dapprima in nord e sud America, come in Australia, poi soprattutto verso i Paesi europei, con picchi di trecentomila espatri l’anno. Le migrazioni verso l’Europa hanno carattere marcatamente temporaneo, mentre quelle verso altri continenti hanno carattere tendenzialmente stabile.

Nella seconda metà degli anni ’60 le destinazioni verso i Paesi europei diventano prevalenti, mentre quelle extra-continente cominciano a perdere attrattiva già a metà del decennio precedente. Il cambiamento della direzione dei flussi va correlato per un verso alla favorevole congiuntura dell’economia di molti Paesi europei, oltre che alle migliori condizioni sociali e previdenziali offerte anche in ragione di accordi tra Stati aderenti all’appena nata Comunità Europea, come pure dalle più agevoli  decisioni di rimpatrio, dall’altro è condizionata dalle sopravvenute difficoltà economiche specie in sud America, ma anche dalle restrizioni introdotte da alcuni Paesi d’oltreoceano. All’inizio prevalgono Francia e Svizzera come mete europee, seguite appena dopo dal Belgio. Qualche anno più tardi è la Germania federale, in piena espansione industriale, ad essere preferita come destinazione. Nel frattempo, a partire dagli anni ’60, l’Italia conosce il suo “boom economico” e s’avvia a diventare una delle grandi potenze industriali del mondo. I movimenti migratori, già a metà degli anni ’60, cominciano a perdere il carattere di esodo di massa che aveva contraddistinto fino ad allora il fenomeno. Negli anni ’80 la media degli espatri, circa 80.000 unità, vengono pressoché pareggiati dalla media dei rimpatri, tanto che persino l’Istat nel 1988 interrompe la rilevazione di flussi e l’andamento del fenomeno è rilevabile solamente attraverso le cancellazioni o reiscrizioni sui registri dell’anagrafe dei Comuni. Negli anni ’90 si rileva per la prima volta un bilancio migratorio favorevole ai rientri, mentre si avverte decisamente che l’Italia si sta trasformando in paese d’immigrazione. Anche dai Paesi d’oltreoceano, sebbene in misura molto più contenuta, prevalgono i rimpatri sugli espatri. Il fenomeno mantiene all’incirca lo stesso trend anche nei primi anni Duemila.

A partire dall’unificazione nel 1861, l’Italia ha conosciuto un espatrio di quasi 30 milioni di persone. Tra le varie generazioni dell’emigrazione che si sono susseguite nei cinque continenti, attualmente si contano in circa 4.208.977, secondo l’ultimo Rapporto della Fondazione Migrantes (Giugno 2012), gli italiani che hanno conservato la cittadinanza e sono iscritti all’Aire, l’anagrafe dei residenti all’estero, con un aumento di 93.742 unità rispetto alla rilevazione del 2011. Se da un lato ciò è indice d’una tendenza alla ripresa del fenomeno migratorio, certamente con caratteristiche diverse rispetto al passato, tuttavia la cifra assoluta è davvero poco rilevante (7% circa) rispetto agli oltre 60 milioni di oriundi che le stime più attendibili confermano essere oggi l’entità della comunità d’origine italiana all’estero, secondo gli accurati rapporti annuali della stessa Fondazione. Le statistiche ufficiali dei residenti all’estero si riferiscono pertanto solo alle cifre degli iscritti all’Aire, per i vari Paesi, essendo rilevabili di anno in anno, come si diceva, dalle iscrizioni anagrafiche dei Comuni. Questo il quadro per continente nel 2012: Europa 2.306.769 (54,8%), America 1.672.414 (39,7%), Oceania 134.008 (3,2%), Africa 54.533 (1,3%), Asia 41.253 (1%), con una classifica che vede in testa l’Argentina con 664 mila italiani residenti (15,8%), seguita dalla Germania con circa 639 mila residenti (15%), dalla Svizzera con 547 mila (13%), dalla Francia con 366 mila (8,7%), dal Brasile con 298 mila (7,1%), dal Belgio con 252 mila (6%), dagli Stati Uniti con 217 mila (5,2%), dalla Gran Bretagna con 202 mila (4,8%), dal Canada con 135 mila (3,2%), dall’Australia con 131 mila (3,1%), dalla Spagna con 119 mila (2,8%), dal Venezuela con 113 mila (2,7%), mentre al di sotto delle centomila presenze stanno Uruguay, Cile, Olanda, Sud Africa, Lussemburgo ed Austria.

Questi i dati ufficiali dei cittadini italiani all’estero. E tuttavia ben altra è la popolazione oriunda dei discendenti delle varie generazioni dell’emigrazione italiana che, pur non conservando o non avendo per una serie di ragioni riacquistato la cittadinanza, è per diritto di sangue italiana e delle proprie origini conserva cultura, valori e tradizioni. In termini assoluti Brasile, Argentina e Stati Uniti sono nell’ordine i Paesi che hanno la maggior presenza d’italiani. Si pensi che in Brasile, dove gli italiani sono la seconda comunità nazionale più numerosa, nella sola San Paolo – metropoli che s’avvia a raggiungere i 17 milioni d’abitanti – circa 8 milioni sono d’origine italiana. Vale a dire che la più grande città italiana sta in Brasile. Come pure in Argentina, paese con oltre 40 milioni d’abitanti, gli oriundi italiani sono circa metà della popolazione ed in certe località sembra davvero di stare in Italia. Come negli Usa, dove secondo recenti dati, le persone che hanno dichiarato d’essere discendenti di italiani raggiungono quasi 16 milioni. Caso di forte concentrazione d’italiani si riscontra anche in Canada, specie nella provincia dell’Ontario, la più popolosa dello Stato. A Toronto, città di 3 milioni d’abitanti con gli immediati sobborghi, quasi un quarto della popolazione è d’origine italiana. Anche in Australia la popolazione d’origine italiana è seconda solo a quella anglosassone, attestandosi, secondo le stime, intorno al milione di persone, con maggiori concentrazioni nelle aree urbane di Melbourne e Sydney.

Ora torniamo alla situazione del fenomeno migratorio all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, con quella terribile condizione per l’Italia uscita distrutta dalla guerra, con disastrose condizioni economiche in tutto il Mezzogiorno, con ampie sacche di povertà anche in Veneto, Friuli e Trentino. Con queste situazioni, che fortemente accelerarono la ripresa del fenomeno migratorio italiano dopo la stasi imposta dal regime fascista, fece i conti la coscienza civile, sociale e politica di una donna straordinaria che già s’era messa in luce nel movimento antifascista e nella Resistenza, quindi nell’Italia democratica e repubblicana, contribuendo nell’Assemblea Costituente a scriverne le regole fondamentali, tradotte poi nella Carta Costituzionale: la parlamentare aquilana Maria Agamben Federici. Nata a L’Aquila il 19 settembre 1899 da famiglia benestante, laureata in lettere, insegnante e giornalista, Maria Agamben sposa nel 1926 Mario Federici, anch’egli aquilano, drammaturgo ed affermato critico letterario, tra le personalità più insigni della cultura abruzzese del Novecento. Da Roma, negli anni del fascismo, si trasferisce con il marito all’estero, dove continua ad insegnare presso gli Istituti italiani di cultura, dapprima a Sofia, poi in Egitto ed infine a Parigi. Cattolica impegnata, profonda fede nei valori di libertà e democrazia, la Federici matura la sua formazione influenzata dal pensiero cristiano sociale – sopra tutto il personalismo di Emmanuel Mounier e l’umanesimo integrale di Jacques Maritain – che avrebbe connotato profondamente la filosofia e la politica dello scorso secolo. Esperienza significativa, quella vissuta all’estero dalla Federici, cresciuta nella consapevolezza del valore della giustizia sociale e del ruolo essenziale della donna, non solo nella famiglia, ma anche in politica e nella società. Al rientro in Italia, nel 1939, mette a frutto tali convinzioni con un intenso impegno sociale e d’apostolato laico. A Roma è attiva nella Resistenza, organizzando un centro d’assistenza per profughi e reduci. Maria Federici si rivela davvero come un esempio ante litteram d’emancipazione femminile, con trent’anni d’anticipo sui movimenti poi nati in Europa. Nel 1944 è tra i fondatori delle Acli, poi del Centro Italiano Femminile (Cif) del quale diventa prima Presidente, dal 1945 al ‘50. Ma sopratutto è una delle figure più importanti della nuova Repubblica democratica nata dal Referendum del 2 giugno 1946, insieme al quale furono eletti anche i 556 costituenti. Deputato all’Assemblea Costituente per la Democrazia Cristiana, contribuisce a scrivere le regole fondamentali della nostra Costituzione.

Insieme alla collega di partito Angela Gotelli (Dc), a Nilde Iotti e Teresa Noce (Pci), a Lina Merlin (Psi), Maria Federici è tra le cinque donne – delle 21 elette nell’Assemblea – entrate nella Commissione Speciale dei 75 che elaborò il progetto di Costituzione, poi discusso in aula dall’Assemblea ed approvato il 22 dicembre ‘47. Promulgata il 27 dicembre dal Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, la Carta costituzionale entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Rilevante il contributo della Federici nella Commissione dei 75, in tema di famiglia, sull’accesso delle donne in Magistratura, sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza alla famiglia e del diritto all’affermazione della personalità del cittadino, sul diritto di associazione e ordinamento sindacale, sul diritto di proprietà nell’intrapresa economica; come pure significativo il suo ruolo in Assemblea plenaria, con incisivi interventi in Aula sui rapporti etico-sociali, sui rapporti economici, sui rapporti politici, sulla Magistratura, sui diritti e doveri dei cittadini. Maria Federici fu poi eletta alla Camera, il 18 aprile 1948, nel collegio di Perugia, nella prima Legislatura repubblicana (1948-1953). La sua spiccata sensibilità sociale, le immagini dei treni e delle navi pieni d’emigranti, le famiglie che restavano nei paesi affidate alle sole donne, la drammatica congerie di problemi che tali situazioni determinavano, mossero Maria Federici in un’attenzione particolare e in un impegno che resta esemplare nell’affrontare le questioni sociali legate all’emigrazione italiana, per la tenacia e la complessità della sua visione del fenomeno migratorio. Dunque, non solo un’attenzione politica, ma anche una risposta strategica e strutturale ai bisogni d’assistenza che man mano emergevano come conseguenza dell’emigrazione. Pensiero ed azione, la sua cifra. Ed è così che Maria Federici, l’8 marzo 1947, fonda l’Associazione Nazionale Famiglie Emigrati (Anfe). Presidente dell’ente sin dalla fondazione, lo rimarrà fino al 1981. Sotto la sua guida sicura, con infaticabile impulso, l’associazione si espande con sedi in ogni provincia e nei comuni a più alta emigrazione, presente sempre laddove esistono i problemi, in Italia o nel nuovo mondo. Anche in quei lontani continenti, come pure nella vecchia Europa, nascono sedi dell’ Anfe, una rete capillare di strutture che diventano punti decisivi d’assistenza per i nostri emigrati, per la soluzione d’ogni problema sociale, burocratico ma anche psicologico nell’integrazione nelle nuove realtà.

Le battaglie di Maria Federici restano un esempio d’impegno civile e politico, come il 30 novembre scorso ha ricordato il presidente nazionale Paolo Genco, alla Camera dei Deputati, nel corso della cerimonia per il 65° anno di fondazione dell’Anfe. La lotta per il riconoscimento dei diritti della famiglia degli emigrati; l’affermazione del principio che l’emigrazione non è problema individuale, ma familiare; il riconoscimento reciproco tra Stati europei dei titoli di formazione professionale; il riconoscimento delle malattie professionali; il riconoscimento dei diritti civili e politici dei connazionali nei paesi d’emigrazione; la scolarità dei figli degli emigrati; l’inserimento della lingua italiana nelle scuole all’estero; le facilitazioni per il ricongiungimento delle famiglie di emigrati; il riconoscimento del diritto di voto degli italiani all’estero: sono solo alcune delle battaglie combattute e vinte da Maria Federici e dall’ Anfe, a tutela della dignità dei lavoratori italiani all’estero, dei loro diritti e dei diritti delle famiglie. Dunque, un’opera notevole quella svolta dall’associazione, nel sostegno alle famiglie ed a difesa della loro integrità, nella difesa dei diritti dei bambini, nella formazione professionale, nella crescita culturale, sociale e civile dei nostri emigrati. Insomma, le meritorie attività dell’ Anfe, riconosciuta Ente morale nel 1968, ne hanno fatto un insostituibile partner nei più alti organismi internazionali per l’emigrazione e l’immigrazione, grazie al suo enorme bagaglio di esperienze. Maria Federici è scomparsa a L’Aquila, la sua città, il 28 luglio 1984. E tuttavia il suo insegnamento è il cespite su cui l’ Anfe fa affidamento per svolgere con efficacia il suo prezioso servizio sociale nel Terzo Millennio. L’Associazione da lei fondata si avvia dunque ad una rinnovata stagione d’impegno sui temi e sui problemi delle migrazioni, poggiando le fondamenta su una storia lunga 65 anni, ricca di esperienze su ogni aspetto dell’emigrazione italiana nel mondo e sull’attualità delle questioni che riguardano l’immigrazione. Un cospicuo patrimonio a disposizione dell’intero Paese, che si deve alla lungimiranza ed alla tenacia di una delle donne più significative del Novecento.

La ricordiamo qui a Pescara insieme ad un’altra straordinaria donna abruzzese nell’Assemblea Costituente, Filomena Delli Castelli, sulla quale altri con qualificata competenza sono intervenuti. Voglio dunque concludere questo intervento sottolineando come l’opera di Maria Federici, insieme a quella di Filomena Delli Castelli – in Parlamento, nell’amministrazione locale come Sindaco di Montesilvano, nel campo della scuola, nel mondo dell’informazione – il loro pensiero illuminato, lo stile di vita, il loro assiduo impegno politico e sociale, restano un esempio notevole nel tempo che viviamo. Oggi il loro esempio stride con certa volatilità del pensiero, con certa incoerenza dei comportamenti politici, con la labilità dei riferimenti ai grandi valori. Nella difficile transizione che l’Italia vive, dove sovente domina l’apparenza piuttosto che l’essenza, esempi di vita quale quelli testimoniati da Filomena Delli Castelli e Maria Federici sono indispensabili riferimenti per poter migliorare il rapporto tra Istituzioni e cittadini, per recuperare credibilità alla politica, per riportare le Istituzioni, e chi è chiamato a ricoprirne il ruolo, alla necessaria austerità dei comportamenti, in linea con i sacrifici che il popolo italiano sta vivendo, per tornare finalmente a costruire il futuro della nostra Italia.